Rossi d'Italia

Alla fine ce la fanno sempre.

    di Max De Francesco

Quando si cede agli esempi, il cognome Rossi non ha rivali. Tizio e Caio vengono scalzati, Sempronio staccato di brutto e il “signor Rossi” vince la corsa degli anonimi. Capita, poi, che il cognome made in Italy per eccellenza continui, su ben altri terreni, ad essere esempio. D’esempio, precisamente. Salendo le scale dell’Olimpo dello sport, annoti così il Rossi che azzanna curve, cade e risorge, dottore d’impennate e rombi di tuono; quell’altro che, dopo oscuri passaggi e assenza di gol, nei Mondiali dell’82 doma l’imbattibile Brasile con tre sberle inaspettate; quest’altro, poi, corporatura anonima e faccia spacciata, che si ribella alla iella e, prima in Spagna e poi a Firenze, calcia in bocca al destino pallonate di magie per riprendersi tempo e gloria. Fino a quando il Fato, bastardo per contratto, con le sembianze di Rinaudo, difensore dal cognome medioevale, in una zona anonima del campo, non offrì un abbraccio cavalleresco ma una legnata sul ginocchio di Rossi Giuseppe. Non un ginocchio come gli altri, ma rotto, rirotto e ricostruito dopo una interminabile crociata per il crociato.

I Rossi d’Italia alla fine ce la fanno sempre. La loro guerra la riescono a vincere. Valentino, Paolo, Giuseppe hanno la resurrezione installata. Sono quelli che piacciono di più perché prima del ritorno sono costretti ad albergare nel precipizio. Sono striminziti giganti che sanno ancora piangere. Nella mitologia c’entrano perché sono costretti, per disgrazia ricevuta, a mostrare una formidabile armatura d’umanità e tenacia. Pipito tornerà. Fascerà ancora il suo ginocchio, ma correrà. E segnerà. Il suo conto con la porta dei sogni è ancora aperto. Ci sono i Mondiali, c’è il Brasile, e il mito di un altro Rossi è così grande e romantico che la guarigione sarà raccomandata anche dagli dèi.





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