Lampadoforia di settembre

Da dove deriva l'antichissima corsa con le fiaccole in onore di Parthenope?

    di Maria Regina De Luca

Chissà che la fiamma, con la sua vermiglia spirale rastremata verso l’alto dal vento nella sua corsa a simbolo di civiltà, non abbia ispirato, per forma e colore, gli artefici dei corni scaramantici: perché si potrebbe tentare di suggerire un baratto ed esporre alla rotonda Diaz una lampada eterna nel suo fuoco emblematico di prosperità e di pace al posto di un corno sia pure imponente, ma ormai impotente a portar fortuna all’ormai languente lungomare e alla sua Sirena. In ogni caso, sembra caduta quanto mai opportuna la festa che il 17 settembre scorso ha visto sfilare per le strade del centro antico i simboli della grecità delle origini della quale Napoli è fiera e orgogliosa, sia pure in misura notevolmente superiore a quella dei suoi abitanti la cui memoria storica manca della retromarcia. 

Perché portare in giro per la città queste testimonianze, con tutto l’onore del quale sono vessilli, ma non essersi assunti l’onere di insegnare alle tre o quattro ultime generazioni che cosa rappresentino, o meglio, che cosa sia una città e che cosa sia Napoli, è come costruire sulla sabbia, tentar di camminare sull’acqua, tessere una tela senza fili e senza telai e cosi via dicendo e reiterando. E quello che dovrebbe essere un appello alla consapevolezza di sé, un sussulto di resipiscenza, una spinta in salita per i napoletani rischia di esser stato sono un quadro di genere, una sfilata come tante, che si dimentica poco dopo perché non è stata adeguatamente ancorata a punti di riferimento che ne diano la necessaria consapevolezza, alimentando le indispensabili memorie. Provare per credere: solo una percentuale minima di napoletani e campani e meridionali e italiani – purchè abbiano superato i cinquant’anni – sa che Napoli fu l’unica città nella quale il decentramento amministrativo sorse fin dalla sua fondazione e si conservò fino al ritorno dei Borbone, decentramento del quale i Sedili sono stati la secolare e significativa sede.

Originaria della Grecia, la municipalità decentrata fu tipica della polis, della sua concezione della forma rettangolare segnata in longitudine e latitudine da decumani e cardini con al centro l’agorà, la piazza, e ai crocicchi i topoi, i luoghi dove si riunivano le Fratrie, associazioni politico-religiose, veri e propri municipi di sezione alle quali erano iscritte le famiglie cittadine. Quando, nel 38 a. C., Roma giunse da queste parti nella sua marcia di conquista, si vide offrire dai prìncipi di Napoli la città senza colpo ferire, ma a patto che venisse federata, non conquistata e vinta: non una resa, ma un’alleanza per evitare una guerra sanguinosa e certamente perduta come quella con Capua, durata circa trent’anni.

Napoli, divenuta alleata di Roma, venne inserita nell’impero come città federata ottenendo i privilegi tra i quali il diritto d’asilo anche ai nemici di Roma. I cittadini di Napoli potevano partecipare al governo romano e le Fratrie furono soppresse, ma restarono i topoi, detti Tocchi, e poi Seggi o Sedili, un’organizzazione di tipo comunale che sopravvisse per secoli. Delle iscritte ai Sedili, molte erano famiglie di antica nobiltà. Gli appartenenti erano chiamati Cavalieri di Seggio e le loro consorti Le dame di Piazza, (termine che da il titolo al famoso libro di Michele Prisco). Gli Eletti trattavano gli affari pubblici interni e I Seggi, con i loro stemmi sulle sedi ornate da decori e dagli stemmi delle famiglie iscritte, funzionavano da consigli di quartiere. Quasi tutti distrutti dal Risanamento, restano del Sedile di Porto la strada, di quello di Forcella il quartiere, del Sedile di Nilo (o Nido) un avanzo di costruzione e qualche simbolo araldico, degli altri qualche affresco sbiadito o poche vestigia individuabili solo dagli esperti e mai messe in evidenza dai vari enti ai quali è affidata la conservazione della memoria storica e architettonica della città.

Tra le funzioni dei Sedili, accanto a quella amministrativa, vi era il compito di difendere i privilegi della città. Al suono della campana del Tribunale di San Lorenzo, i rappresentanti dei nobili e del popolo dei Sedili si riunivano e partivano nelle missioni in difesa dei diritti che la città aveva acquisito per meriti di rango e di patti di governo e che, lesi dal governatore di turno, venivano, da vicerè, sovrani e imperatori, puntualmente riconfermati. Tra questi, quello di non introdurre mai in città il tribunale dell’inquisizione spagnola.

Tentare di approfondire appena questo argomento richiederebbe altri spazi. Limitiamoci a dire, dopo aver assistito alla peraltro gradevole, sia pur nel degrado dei luoghi, performance del giorno 17, che purtroppo pochi nel pubblico sapevano a che cosa stavano assistendo, che cosa si stava rievocando: la nobiltà di una città antichissima, che patteggiò con Roma e con l’Impero di Carlo V la sua autonomia e i suoi privilegi, che nel suo impianto ippodameo ebbe le prime strutture della municipalità amministrativa le cui sedi, prima Fratrie, poi Tocchi o Sedili, conservarono fino all’inizio dell’Ottocento la loro funzione attiva e gestionale degli affari dei luoghi di loro competenza, che le famiglie più antiche appartennero a quelli più centrali di essi, tra i quali quello del Nido e quello di Capuana.

Primo tra tutti i diritti difesi dai Sedili, quello che assicurava la libertà spirituale della città. Nonostante le tragiche condizioni del popolo, la libertà spirituale valeva più del cibo, più di ogni altro bene e il Tribunale dell’Inquisizione l’avrebbe brutalmente stroncata.

Questo piccolo brano di memoria non basta certo a legare la corsa della fiamma greca alla realtà napoletana di oggi, ma conoscerne anche superficialmente la storia non guasterebbe. Perché ciò avvenisse, sarebbe necessario che almeno qualche cenno di storia della città venisse inserito nell’apprendimento delle giovani generazioni. Ma la scuola istituzionale tace. E sarebbe il caso di riflettere su tale silenzio, assenso e viatico di ignoranza. Così, forse, non ci sarebbe bisogno di mutuare la fiamma della grecità e il suo guizzo vermiglio con un corno al quale attribuire il significato di apportatore di benessere. Sarebbe, da parte dell’ideatore dell’operazione, una resa alla fatalità delle condizioni nelle quali versa Napoli. Ci vuole ben altro che un corno a risollevarne le sorti e forse un’ispirazione potrebbe fornirla l’affresco di Lorenzetti nella Sala del Consiglio dei Nove del Palazzo pubblico di Siena: l’eccelsa allegoria del Buon Governo e del Cattivo Governo dai quali dipende la fortuna o la sfortuna e le sorti future di una città: provare, per credere.





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