Alessandro Barbero, il Tribunale
«La Storia è un grandissimo caos, imprevedibile, incontrollato, non c'è un senso»
di Roberto Rosano
Stamattina, mi sento molle come uno di quei sacchetti per cartoccio fatti per gonfiarsi senza esplodere. La sveglia impostata male ieri notte, il treno in ritardo e tante altre piccole grane, che non sto a raccontarvi, mi hanno compresso ben benino, ma che sarà mai. Il cielo è terso, stamattina, l’aria pulita, il sole forte e gentile, e Torino ha gli stessi colori di certi film di Bergman.
Quella luminosità invernale che t’accoglie affabilmente, senza gettarti le braccia al collo. Del resto, tutto a Torino è così, le cose, come le persone. Mi precipito in Via Po, riuscendo stranamente a spaccare il minuto. Non ho neanche il tempo di darmi un contegno, che so io, di riprendermi dal fiatone o d’asciugarmi la mano, che mi ritrovo faccia a faccia col professor Barbero. Cammina avanti e indietro, col suo solito fare un po’ agitato, sulla soglia del Caffè Fiorio, tutto rimuginato in un bel cappotto blu, sciarpa a quadretti appoggiata sul collo, come una stola di prete, e una berretta di velluto beige. Professore, molto piacere, sono in ritardo? Piacere mio, no, no, è in perfetto orario. Prego, prego...
Il Fiorio è un bel Caffè dal tono sette-ottocentesco, una di quelle stanze di Torino in cui soffiano ancora gli spiriti dei nobili della restaurazione, che qui si riunivano, e i maggiori intellettuali e politici del Risorgimento. Pare che persino Carlo Alberto di Savoia, prima di discutere le questioni di Stato, chiedesse, ogni mattina: beh, che si dice al Fiorio? Il professore prende un’aranciata fresca ed io un tè al bergamotto, dimenticando una regola fondamentale della mia logopedista: non bere mai tè se hai bisogno della voce.
Professor Barbero, Lei di chi è figlio?
A chi sei figl’? (Ride di gusto). Dunque, sono nato in una famiglia piccolo borghese torinese. Sono figlio di impiegati, fondamentalmente cattolici, due genitori molto esigenti, ma molto aperti. Ci hanno sempre detto di pensare con la nostra testa. Il risultato è che non sono più né cattolico, né conservatore.
Che bimbo era?
Ero un bambino che se ne stava sempre col naso sui libri o sui fumetti, abbastanza solitario…
Il classico nerd, insomma!
Un volta si diceva secchione, ma io lo trovavo insultante allora come oggi e non mi riconosco in questa definizione. Io avrei preferito leggere Topolino piuttosto che studiare il libro di testo, però leggevo continuamente e quello che chiedevo erano sempre libri, soprattutto Salgari, non chissà cosa. Facevo i modellini, gli aeroplanini, i carri armati, cose che ormai non sono più di moda…
Professore, quando La sento parlare di storia, ho sempre l’impressione che sia rimasto grossomodo il bambino che giocava con gli aeroplani e i modellini. C’è un entusiasmo in questa sua passione per la storia, che giudicherei infantile. È così?
È vero, è vero. Mi dicono spesso che la passione viene fuori quando faccio lezione e che è contagiosa anche. A me questa roba diverte follemente. Ho cominciato a leggere molto presto, già a casa. Mi ha insegnato mia madre, tant’è che ho iniziato direttamente dalla seconda elementare, allora usava così. Già sul Corriere dei piccoli c’erano moltissime storie di guerra ed io ci andavo matto. Ricordo un numero bellissimo, con una copertina memorabile, un grosso elmo prussiano, di quelli col chiodo.
E questo libro? (Estraggo “La società medievale” di Marc Bloch). Le ricorda qualcosa?
Ah, sì, quello è stato molto importante per me. Grazie a quel libro oggi sono un medievista. Vede, la mia passione da ragazzino era essenzialmente concentrata sulle guerre mondiali. Negli anni ’60 il ricordo era ancora molto vivo, pubblicavano continuamente libri su Rommel, sull’aviazione, sull’Afrikakorps… Si vendevano regolarmente fumetti tradotti dall’inglese, che raccontavano avventure di guerra. Li ho rivisti proprio ieri sulle bancarelle, qui, in via Po, si chiamavano: la “Collana Eroica”, “Guerra d’Eroi”.
Era l’epica più recente… Che cosa l’ha affascinata del Medioevo?
La gente, la gente vera. Cosa sentiva, cosa capitava, come reagiva ai problemi. Ho scoperto che il medioevo è un periodo molto concreto. È un periodo molto sofisticato, in cui si produce un’arte, una letteratura, una teologia sofisticatissime, però la gente raccontata nelle opere dell’epoca ti dà un’impressione di verità, di non ipocrisia. La gente, ad esempio, amava molto il sesso e ne parlava.
Certe volte, penso tra me e me: ah se qualcuno avesse stenografato le ultime parole di Giovanna d’Arco un attimo prima di salire sul rogo! Ah se qualcuno avesse interrogato con la macchina da presa Napoleone o Cromwell! Se fosse possibile, secondo Lei avremmo delle sorprese?
Giusto per fare le pulci: di Giovanna d’Arco, sì, non abbiamo le ultimissime parole, ma abbiamo le sue parole stenografate nei verbali del processo. Certo, se mi dicessero: abbiamo trovato delle riprese dei marziani, un filmato di Carlo Magno, io non dico che darei una mano, ma tre dita le darei per vederne anche solo cinque minuti, ma solo per il grande divertimento di fare un viaggio nel tempo, non credo che imparerei chissà cosa.
Professore, oggi la Storia si registra nell’attimo stesso del suo divenire. Si filma, si fotografa, si incide la Storia e subito la si diffonde. Questo, forse, ha anche moltiplicato il nostro senso di inadeguatezza. Voglio dire: nessuno al tempo di Tamerlano era in grado di sapere, in tempo reale, quanti morti stesse lasciando sul campo. Oggi sappiamo tutto, quasi tutto. Questo non è terribile?
Non sono del tutto d’accordo. Abbiamo oggi una marea di informazioni. Tutto ciò è schiacciante, senz’altro, caro ragazzo. All’epoca di Tamerlano non si potevano avere notizie in tempo reale, ma comunque si viveva in un’epoca in cui da un momento all’altro ti potevano arrivare delle novità. Un tempo, i mezzi di comunicazione erano così lenti! Anche un governo, che doveva fare la sua politica, la sua diplomazia e che doveva dirigere una guerra a distanza, lo faceva sapendo che le informazioni arrivavano dopo mesi. Però, per loro, quella era l’unica normalità possibile.
C’era già l’idea di essere sempre aggiornati, insomma…
Abbastanza. Già all’inizio del Novecento, c’erano parecchi giornali che facevano le edizioni del pomeriggio. Anche la gente di allora diceva: incredibile! Siamo informati minuto per minuto su quello che succede. Di fatto, noi abbiamo una mole maggiore di news, però ognuno di noi legge il giornale che è più vicino al suo sentire e pensa che quello sia il punto di vista giusto sulla realtà. Quindi, questo enorme flusso scorre sopra di noi e, in ogni caso, non è la Storia.
Uhm, non si può dichiarare “storico” un fatto appena accaduto, per quanto importante esso sia?
Negli anni a cavallo del ‘900 se uno avesse chiesto ad un occidentale dell’epoca qual era il più grande problema, questi avrebbe detto: gli anarchici. Questi anarchici che ammazzano, che l’anno scorso hanno fatto fuori l’imperatrice d’Austria, quest’anno il re d’Italia, l’anno prossimo il Presidente degli Stati Uniti. La loro presenza è ossessiva, terribile, sta cambiando la Storia del mondo. Oggi, se chiede in giro, non lo sa nessuno che c’erano gli anarchici. (Ridiamo). Perché? Perché le forze che hanno poi governato i fatti non sono state quelle che gli uomini del tempo si aspettavano. Il venir fuori dell’antisemitismo in Germania, ad esempio, sarà più importante per la Storia.
In che cosa sono diversi da noi quelli che, invece, la Storia la fanno? I potenti, intendo.
Questa è una domanda per me irrisolta. Nel senso che sono diviso tra due pensieri. O quelli che sono al potere sono come tutti gli altri, con gli stessi limiti, passioni e debolezze, ed è possibile. Ogni volta che uno legge le lettere private di un potente, io ne ho lette tante, quelle di Cavour, di Vittorio Emanuele, ci si accorge di quanto l’essere umano sia simile a qualunque altro, anche se sta su un trono. D’altra parte, penso che gli esseri umani, condizionati dall’esperienza del potere, cambino in un modo che io non riesco bene ad afferrare.
Cosa hanno più di noi, allora, quelli che fanno la Storia?
Secondo me il carattere…
L’intelligenza?
No, non direi. Certo, è meglio non essere dei perfetti idioti, ma non è poi così necessario essere intelligenti. Non direi neanche la competenza, che può essere molto utile ma non è indispensabile. Credo sia, sì: il carattere. Ed anche quella che Reagan chiama the vision, la visione, un obiettivo, e la forza di perseguirlo, e le spalle larghe per conservare un orizzonte ampio. I piani non sono importanti, possono essere meschini, sgradevolissimi. Churchill e Federico il Grande hanno commesso errori terribili, ma hanno comunque…
Insomma, sintetizzando, per fare la Storia occorrono visione e stazza superiori alla media!
Sì, sì, assolutamente.
La grande quantità di tecno-immagini, che sono in fondo i nostri attuali codici di comunicazione e che produciamo tutti i giorni, complicheranno o agevoleranno il lavoro degli storici del futuro?
Anni fa, ho fatto una conferenza su come scoppiano le guerre: ho trattato la prima guerra mondiale, la seconda e poi dovevo sceglierne una terza. Ho scelto la guerra delle Falkland o se preferisce Malvinas, non so come…
Va bene Falkland, per me.
Anche per me, ahah. Quella guerra è avvenuta quando io avevo 22 anni, me la ricordo benissimo. È una guerra moderna, nel senso che, se uno vuole, può vedere tutti i filmati, non solo dei combattimenti, ma anche della Thatcher che parla ai Comuni. Forse avrò esagerato, ma non mi è nemmeno venuto in mente di guardare un filmato. Sono andato sul sito della Fondazione Thatcher, ho trovato e letto tutti i verbali delle riunioni segrete di gabinetto, de-secretate dopo trent’anni, il botta e risposta verbalizzato tra la Thatcher ed il Ministro della Guerra, i commenti a margine di pugno della Thatcher… Questo è milioni di volte più importante del filmato. Lo storico starà ancora chino sulle scartoffie per capirci qualcosa.
Professore, questa benedetta Storia è fatta da tutti o dai sogni, dai capricci di pochi? Dal naso di Cleopatra, come diceva Pascal! Siamo greggi impotenti nelle mani di un pastore o possiamo fare qualcosa?
È chi comanda a imprimere delle svolte forti, senza dubbio. Al tempo stesso, siamo tutti dentro un mondo dove contano le costrizioni dell’economia, i movimenti di massa della società e così via. C’è un’infinità di cose in cui siamo incastrati, però l’individuo può comunque dare un contributo. Quando uno decide di ammazzare John Lennon qualcosa sta facendo per cambiare un po’ il clima del mondo!
Insomma, la risposta è: un po’ e un po’…
Le grandi decisioni, che cambiano le masse, quelle naturalmente le fanno in pochi, non in piena libertà, tutt’altro, neanche un imperatore romano e neanche un sultano potevano fare quello che gli veniva in testa. C’era subito qualcuno a dire: no, ma guardate che i giannizzeri non sono d’accordo, il raccolto quest’anno non è andato bene, si profila una rivolta in Asia Minore, mi dispiace, ma questa guerra non la potete fare. Ma come non la posso fare, sono il sultano! Naturalmente le grandi guerre, le grandi svolte le presiedono quelli che Lei chiama “pastori”, confidando che le greggi li seguano, ma senza esserne certi.
Lei ha tenuto, a Sarzana, quattro lezioni sulla responsabilità dello storico. Lo storico ha, quindi, anche una responsabilità civile? Deve farsi sentire nel presente?
Il titolo di Sarzana non l’ho scelto io, però, eh! Il compito dello storico è sempre quello di far bene il suo lavoro, questa è la sua responsabilità. Ha l’obiettivo di sapere la verità su quello che è successo e deve insegnarla. Questo non significa che uno storico debba firmare manifesti e partecipare alle marce, anche se, quando lo scorso sabato c’è stata la marcia No Tav qui a Torino, io ci sono andato, ma non perché sono uno storico, ci sarei andato anche se fossi stato un metallurgico.
E Salvemini, lo storico pieno di passione civile?
Ma anche Salvemini, in realtà ha fatto lo storico, ha scritto Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, per esempio. Certo c’era anche lì una forte valenza politica, ha detto: guardate che è l’economia che determina la politica, ci sono i conflitti di classe, ha ragione Marx. Certo, è stato un politico, ma il suo impegno contro Giolitti e il fascismo, non è dipeso dal suo essere storico. Lui scriveva libri per raccontare agli americani cos’era il fascismo, ma non lo faceva da storico.
Si dice che una democrazia sia buona o cattiva a seconda di se il popolo sia l’una o l’altra cosa... Giusto? Che ne dice di noi italiani? Che popolo siamo e, di conseguenza, come giudica la nostra democrazia? Con questa domanda Le chiederei di sbilanciarsi un po’ di più e mi appello non allo storico, visto quello che mi ha detto, ma al cittadino. Il cittadino Barbero che mi dice sullo stato attuale delle cose qui in Italia?
Oh, per carità! (Si mette una mano sulla fronte). Non ricordo più: chi era Andreotti o Mussolini a dire governare gli italiani non è difficile, è inutile. Chi lo diceva?
Pare che quella frase abbia tre padri, come certi personaggi delle commedie di Scarpetta. C’è chi dice sia di Mussolini, chi di Giolitti, chi di Churchill… Boh! Insomma, siamo degli inguaribili scapestrati, noi italiani!
Vede, caro Rosano, i luoghi comuni sui popoli fanno sempre un po’ ridere, però a volte colgono qualche verità: è vero che i tedeschi sono molto seri, ma gli italiani, secondo me, sono un popolo meraviglioso proprio perché non prendono sul serio quasi niente e non si aspettano quasi niente. Danno per scontato che ci sia il peggio. Danno per scontato che tutti siano corrotti. Questo è molto grave, però preferisco noi rispetto a quegli integralisti americani che credono che l’uomo possa essere perfetto, integerrimo, che chi li governa possa dire sempre la verità e, quando scoprono che il loro presidente ha detto una piccola bugia, allora cadono nella costernazione e nel panico. Siccome le persone non sono perfette e quando fai lo storico è la prima cosa che capisci, allora preferisco un popolo che esageri nel dire: ma tanto tutti dicono le bugie, figurati! E che sarà mai!
In sostanza, la leggerezza degli italiani Lei la legge come realismo, professore! (Rido).
È un realismo estremo che, come tale, può diventare irrealistico, perché non prevede più eccezioni… Cioè, una Giovanna d’Arco in Italia non ci sarebbe mai stata.
Torniamo, però, alla domanda: lo stato della democrazia in Italia…
Sì, la democrazia, secondo me, vuol dire due cose: quanto la gente riesce ad influire sulle decisioni del Paese e quanto la società è egualitaria e aperta. Cominciamo dalla seconda: la nostra democrazia va molto male, la nostra società non è egualitaria, non è aperta, è peggiorata spaventosamente nell’arco della mia vita, spaventosamente! La democrazia rappresentativa è una forma molto annacquata. Democrazia dovrebbe voler dire che si va tutti sulla collina, come ad Atene, e c’è uno che dice: volete fare la guerra a Sparta? Sì! Sì! Sì! Sì! Questa è la democrazia… (Ridiamo). Dopo di che, ci siamo abituati a pensare che democrazia significhi che non ti rompano troppo le balle, che non ti arrivino al mattino a bussarti a casa, che non ti arrestino perché hai detto la tal cosa, che puoi scendere in piazza a dire Governo Ladro!, senza che qualcuno ti arresti o ti bastoni…
Salvemini si era molto battuto per dare il diritto di voto anche agli analfabeti, a chi forse, oso, non aveva la dotazione intellettuale, il bagaglio di saperi che occorre per orientare il futuro del Paese. È​ stata una buona mossa, secondo Lei? È giusto che, in democrazia, uno valga uno?
Allora, ci sono solo due scelte: “uno vale uno” vuol dire che a scegliere sarà anche l’ignorante, l’analfabeta... Oppure, troviamo un meccanismo, quale che sia, per garantire che solo i migliori possano partecipare alle decisioni. Io sono convinto che non ci sia nessun modo valido. Negli Usa, per essere elettore devi andare tu ad iscriverti al seggio elettorale. Risultato: fino a qualche anno fa, se tu eri un nero del Mississippi e decidevi di andare ad iscriverti al seggio, ti rispondevano: oggi è chiuso, torna domani. Poi la sera veniva uno a casa e ti diceva: ma sei stato al seggio elettorale stamattina? Ma sei sicuro? Tieni conto che… Lascia perdere, ragazzo! Ogni sistema, anche il meglio pensato e con le migliori intenzioni, può provocare, come conseguenza, che persone che avrebbero tutti i titoli per essere considerate le migliori vengano invece escluse.
Agli occhi dello storico quali sono oggi i fatti e quali le fesserie, insomma cosa passerà alla Storia?
Direi che di fatti oggi se ne vedono pochi. È abbastanza impressionante come l’Occidente stia attraversando un periodo in cui ci sono grandi cambiamenti nella tendenza economica, nella povertà, nella disuguaglianza, ma fatti tali per cui in futuro si dirà accidenti che fatti straordinari sono successi in quegli anni, francamente in Occidente, a parte la caduta delle Torri... Se uno dice: cos’è successo dal 1900 al 1918? Di tutto! Se uno dice e dal 2000 al 2018? Boh! La politica e l’informazione si basano soprattutto sulle parole: Salvini ha detto questo. Trump ha detto quest’altro. L’assenza di fatti è tale che quasi tutti i fatti di cui si parla sono futuri. C’è questo sforzo superstizioso di prevedere il futuro: l’anno prossimo il PIL crescerà solo dell’1%. Si è creata questa mentalità per cui la gente prende sul serio questa cosa, come i Romani guardavano il volo delle aquile.
Insomma, è un po’ come se l’Occidente fosse una parentesi in cui la teoria di Fukuyama sulla fine della Storia…
È quasi vera, paradossalmente. In quei termini sì. Adesso, per carità, stiamo scherzando, certo, la morte di Osama, la guerra in Iraq, il processo e l’impiccagione di Saddam, la guerra civile in Siria, per carità, ma in Europa e negli Stati Uniti, onestamente… Pensi a come è lento il processo di aggregazione dell’Europa. In passato, gli Stati Uniti sono passati dall’essere un colonia inglese all’essere una Repubblica, hanno fatto una Costituzione, hanno creato istituzioni che esistono ancora oggi: il Presidente, la Casa Bianca, il Senato…
Questi non sono tempi interessanti, non sono tempi epici e, di conseguenza, ci sono pochi eroi, quelli veri, non i piccoli eroi civili decorati del Presidente o della Regina…
Sì, poi lì bisognerebbe fare un altro discorso sulla cultura popolare, sulla cultura giovanile. Sì, vero, non c’è più un pantheon d’eroi, ma c’è lo star system. Torino è pieno di manifesti che inneggiano a Cristiano Ronaldo.
Professore, sappiamo come muore una democrazia: muore a poco a poco, con la complicità dell’indifferenza, quando non schierarsi diventa una misura di buon senso. Si dice: meglio non dire, meglio tacere. Poi c’è un tipo che inizia a brandire soluzioni, spesso gridando, e la folla lo acclama: ci pensa lui, il Duce, il Cesare, il Capitano! Sta accadendo anche oggi, come dicono certi analisti della politica?
No, no, non mi sembra affatto che stia accadendo qualcosa del genere. Posso sbagliare, ma spero di no. Non mi sembra ci sia un clima di quel genere. Il pericolo per la democrazia sta nel fatto che si sta allargando la distanza fra i pochi ricchi e i molti poveri, la disoccupazione giovanile… La democrazia si sta svuotando di suo, ma non si sta verificando l’ascesa al potere di picchiatori in camicia nera o di qualunque altro colore. No, no!
Insomma, non c’è bisogno di mettersi il coltello in bocca e difendere la democrazia, non c’è il pericolo di un ricorso storico?
No, no, proprio per niente. Semmai bisogna difendere la democrazia cercando di ridurre le disparità di cui parlavamo prima. La nostra è una società comunque fatta di mille interessi, di una forte abitudine all’illegalità, alla raccomandazione, al gruppetto di potere, ai collegamenti nascosti… La prova migliore di ciò che sto dicendo è che anche sotto il fascismo era così. Gli studi che sono stati fatti su come funzionava la politica, quella vera, concreta, locale, sotto il fascismo, ci dicono che di fatto il funzionamento dei piccoli gruppi di potere, le corruzioni, la macchina del fango, le bustarelle, c’erano eccome. Il Paese è quello.
Herbert Matthews, corrispondente di guerra del New York Times, dopo la liberazione, su Mercurio scrisse: Non l’avete ucciso! La sintesi era: italiani, pensate di esservi liberati di Mussolini, vi sbagliate. Il fascismo è un bacillo mutante. Lei è d’accordo?
Ni. Se per fascismo intendiamo il menefreghismo individuale che tende a delegare all’uomo forte, quello sì. Poi Marx aveva ragione: la storia avviene come tragedia e si ripete come farsa. Noi abbiamo avuto Lui, Mussolini, poi Lui, Berlusconi, la caricatura. In questo senso una certa presenza nel nostro popolo di alcuni aspetti del fascismo c’è. Allo stesso tempo il fascismo voleva dire: tutti svegli, in camicia nera, marciare, conquistare le colonie, produrre carri armati. Di tutte queste cose non è rimasta alcuna traccia e mi pare che mai tornerà.
Secondo me non è detto che non possa ricapitare. L’uniforme esercita sempre molto fascino sui deboli. Mussolini addormentò i nostri nonni, vestendoli da soldati fin da bambini. Insomma, sono cose che piacciono… Non piacevano anche a Lei, professore?
Ma Lui non è che li abbia addormentati, Mussolini ha inventato il coinvolgimento delle masse. Non ti lasciava tranquillo. Ti veniva a dire: domani c’è il sabato fascista, mettiti la camicia nera e vai in piazza. Tuo figlio? Balilla! Lezioni di moschetto, anche a scuola. Ha coinvolto. Certo, non le teste, non voleva che le teste capissero o criticassero, ma l’essenza del suo totalitarismo era coinvolgere le masse.
Secondo Lei sul carattere degli italiani ha influito di più Mussolini o Berlusconi? Gli italiani sono quelli che saltano nei cerchi di fuoco o quelli che se ne stanno comodi di fronte al televisore…
No, gli italiani li ha capiti meglio Berlusconi, non dico che abbia influito, ma ha colto meglio l’essenza del carattere degli italiani. Ha detto: state calmi, tranquilli, davanti alle mie reti colorate e luccicanti e non preoccupatevi di niente. (Ridiamo).
E se qualcuno si impegna su qualche fronte, che so io, in Africa e passa un guaio: gli si dice…
Esattamente. Ma perché non te ne sei stato a casa, tranquillo, al caldo, davanti al televisore?! Altro motivo per cui non bisogna temere un ritorno del fascismo, in quei termini lì, gli italiani sono pigri. Certo, è mancata la presa di coscienza su ciò che è stato il fascismo, quello sì, è grave. È grave che qualcuno possa svegliarsi e dire che il fascismo è stato un regime mite, che non ammazzava nessuno e mandava la gente in villeggiatura.
Professore, mi è venuto in mente quando Fidel Castro disse una delle sue, solite, gradassate: Condannatemi, ma la Storia mi assolverà! Poi divenne un pamphlet, venduto su tutte le bancarelle di sinistra del mondo. Eppure non sono così certo che Castro avesse torto. Si ha davvero l’impressione che la Storia abbia un Tribunale tutto suo. Può capitare che un furfante come Costantino passi alla Storia come il Signum Celestem Dei, il fondatore della più grande megalopoli del Mediterraneo, quello che ha convocato il primo Concilio ecumenico e non come un assassino e l’usurpatore di un regno. E perché questo non potrebbe accadere anche ad uno come Mussolini, tra qualche millennio? Perché uno storico del futuro non potrebbe dire che il Duce è stato un grande statista perché ha bonificato le paludi pontine, ad esempio?
Questo però ha a che fare molto con la percezione giornalistica della Storia. Ad uno storico sentir parlare di Tribunale (pronuncia la parola Tribunale con molta enfasi) fa drizzare i capelli in testa. La prima cosa che le dice lo storico è: non dobbiamo assolutamente giudicare. Chi consideriamo grandi uomini? Quelli che hanno lasciato un segno. Da sempre si è detto: nessun grande uomo è tale agli occhi del suo maggiordomo. Quindi, si dà per scontato che non si stia parlando di uno buono d’animo. Le cose che ha fatto Costantino hanno cambiato il mondo? Quella è la misura della grandezza per la Storia!
Quindi, il Tribunale della storia “ragiona” in termini consuntivi. Fa un bilancio…
Ma non è neanche il discorso in fondo il bene è più del male, sennò scendiamo davvero al livello di chi oggi inneggia al fascismo. In realtà, nel Tribunale della Storia la condanna consiste nel non passare alla Storia, nell’essere dimenticati. Una volta che non sei dimenticato, a quel punto il Tribunale della Storia ti ha assolto. È drammatico, sì, perché Mussolini ed Hitler tra qualche secolo non susciteranno più nessun orrore, come oggi non suscita orrore Attila o Gengis Khan. Quando sarà spento il ricordo diretto di chi ha sofferto, il Tribunale emetterà la sua sentenza, a freddo. La Storia, vede, è un grandissimo caos, imprevedibile, incontrollato, miliardi di vite messe insieme, non c’è un senso. Non lo cerchi il senso, caro ragazzo, perché non lo troverà.