Lamberto Lambertini, da Dante a Sansevero

Il regista si racconta: il cinema di oggi, le fantasie da portare sullo schermo, gli attori giusti

    di Vincenzo Maio

Lamberto Lambertini (nella foto) è un regista italiano nato a Napoli nel 1946. Iscrittosi alla facoltà di Medicina, si trasferisce prima a Parigi e poi a Londra come aiutante del pittore Lucio Del Pezzo. Al rientro in Italia, inizia a lavorare come grafico del Teatro Stabile di Roma per poi diventare regista. Ha debuttato nel cinema col progetto “Diario Napoletano”, producendolo per la “Stella Film”. È stato anche autore e regista radiofonico.

Abbiamo incontrato Lambertini nel Palazzo del Governo di Benevento il 20 gennaio 2019 in occasione dell’inaugurazione dell’anno sociale della “Società Dante Alighieri” Comitato di Benevento, che ha dato inizio al suo programma culturale con la proiezione del film “In viaggio con Dante”, dello stesso regista.

Come è nata l’idea del film “In viaggio con Dante”?

È un’idea nata circa nove anni fa. All’epoca fui chiamato da Paolo Peruffo e Alessandro Masi, rispettivamente vice-presidente e segretario generale della “Dante Alighieri”. Avevano visto un mio film e mi dissero: "Lamberto, perché non pensi a un’idea cinematografica per la “Divina Commedia”? L’abbiamo resa in tutti i modi, ma cinematografica mai. Però un’idea attuale, non un film con gli attori". E così, parlando parlando, ci è venuto in mente di soffermarci per ogni canto su un luogo diverso d’Italia. Quindi cinematograficamente un luogo, un artigiano, un mestiere, un museo, una galleria, delle bellezze particolari dell’Italia, per lo più sconosciute, ben riprese, mentre fuori campo scorre l’integrale lettura del canto di Dante relativo a quel luogo.

Qual è il segreto per girare un buon film?

Oggi è molto più difficile pensare di girare un film, perché il pubblico non c’è più come prima. In passato si poteva pensare di farlo commercialmente oppure artisticamente, ma il pubblico stava lì, in attesa. Oggi i ragazzi non vanno a cinema, è tutto internet oppure televisione, spesso non vedono neanche la televisione. Per me fare cinema significa realizzare un’opera d’arte, con la stessa libertà. Il grande cinema sta in televisione. I grandi soldi, i milioni, li spendono lì. È inutile combattere contro la televisione per fare quello che un tempo era il cinema. Il cinema deve prendersi la libertà di fare arte, libero, per avere un pubblico magari ridotto, ma che sia un’élite, come il museo che propone arte contemporanea. Perché poi il produttore pensa sempre di sapere la verità: facciamolo più comico così viene la gente, facciamolo più erotico così viene la gente, mettiamoci un po’ di sesso, mettiamoci un po’ di guerra. Invece il pubblico prende quello che riceve. Per me il pubblico vuole solo la verità. Allora l’unica ricetta per fare un buon film è fare una cosa vera, sentita da te che lo fai. Il pubblico si accorge subito se c’è imbroglio o verità, se c’è furbizia o verità.

Un buon film deve trasmettere sempre emozioni?

Solo e sempre emozioni. Un film può anche trasmettere un messaggio, ma non deve essere la regola né la prima cosa. Preferisco un film che comunichi e produca grandi emozioni, anche se non ci sono messaggi espliciti e chiari, né morali né politici. Qualche volta è necessario. Poi se si usa un grande romanzo va bene. Però alla fine tra il pubblico c’è solo il passaparola. Quando si è emozionati si ride, si piange, ci si commuove, e lo si dice. E così il film viene visto. Quindi anche per il pubblico la cosa più importante è vivere un paio d’ore di emozioni.

La cosa più facile e quella più difficile durante le riprese...

Per me che che faccio poche cose, rare, quando proprio sento una voglia estrema, allora la difficoltà maggiore è gestire la troupe, 85-90 persone da coordinare. Penso sempre che in ogni singolo fotogramma del mio film c’è la testa di 84 persone. E divento matto. Perciò ho fatto la “Divina Commedia” da solo. Non è film, è film, è documentario, non si sa. È un’opera senza attori, in grande libertà. Quando viene brutta si straccia e si rifà. Nel cinema non si può. È tutto organizzato. Gli attori per me sono una lotta infinita. Nell’ultimo film ho avuto Omar Sharif, e ringrazio Iddio per aver instaurato una grande amicizia, una fratellanza con quest’uomo grandioso, attore di una professionalità estrema, di vecchia scuola. Normalmente invece gli attori, specialmente giovani, se non sono bravissimi, sono una fatica immane. E si può fare un film anche con le migliori intenzioni, ma dopo quel prodotto va a mare, con tutti i panni. Purtroppo dipendiamo da loro, che ormai sono televisivi, non esistono più i grandi attori teatrali o le star americane. Abbiamo questo grosso problema: l’attore televisivo si è creato una popolarità esagerata, e allora il produttore lo vuole nel suo film, nel nostro film, quando magari non sa recitare.

Qual è quindi la situazione attuale del cinema italiano?

So che il cinema italiano ha un grande handicap: pensa di non poter andare all’estero perché in America o in Inghilterra non ci doppiano. Quindi il cinema italiano è lo specchio dell’Italia, con le sue bellezze e con le sue miserie. Si fa un film sperando che vada bene qui da noi, che incassi i soldi necessari per ripagare almeno le spese, oppure si aspira ai premi in Italia. Non si può certo dire: "Facciamo un film che magari sfonda in America". Un film americano si fa spendendo 100-200 milioni per la realizzazione, spendendone altri 100 nella distribuzione, ma incassandone poi 600 in giro per il pianeta. Per noi non esiste tutto questo, come pure per il cinema francese. È chiaro che siamo ridotti a fare qualcosa di molto legato ai gusti italiani del momento. Oggi va un determinato attore, il comico, la commedia. Prima no, dominavano i film d’autore o politici. In sintesi, il cinema italiano non va né bene né male; è un cinema un po’ provinciale rispetto al pianeta. E quando ci piace qualcosa di grande, parliamo sempre di cinema americano. In Italia ce la facciamo a realizzare il film, arrivando a quei 2-3 milioni che servono, però non spendiamo niente in distribuzione. Si fa qualche manifesto, qualche spot dimenticando che un bel film, se non ha una distribuzione potentissima, non cammina.

Come capisce che un attore ha le caratteristiche giuste per emergere?

Per emergere non lo so, e non mi interessa. Bisogna capire se c’è vera passione, vero talento su cui lavorare. Una specie di verità interiore per cui si vuole recitare. Perché se la ragione è sperare di sbarcare in televisione o stare in mezzo per il piacere di farsi notare o sentirsi belli, allora partiamo con il piede sbagliato. Da un provino che sembra una scemenza si capisce subito se il candidato vuol fare piccola televisione perché è di bella presenza o se può tentare il grande teatro e il grande cinema. È difficile capire quel certo “non so che” che c’è nell’artista. Noi poi definiamo artista un regista, un pittore, uno scultore. Ma tutti devono essere artisti per farlo bene e poi emergere. Anche l’attore e il cantante. Se un artista arriva subito poi la gente lo sente.

Che cosa direbbe ai giovani che vogliono entrare nel cinema?

Non saprei proprio che dire. Anche un regista fatica per fare un film.

Qual è stata la più grande soddisfazione della sua carriera?

La carriera no, i film che ho fatto sì. Quest’ultimo, “In viaggio con Dante”, per me è stata la più bella esperienza e forse la cosa che più mi ha realizzato, mi somiglia. Il primo film in India, dove ho incontrato i grandi attori indiani, con questo mondo infinito e meraviglioso che è l’India di Calcutta. L’altro film, dove ho conosciuto Omar Sharif, che viveva a Parigi, parlava cinque lingue, era campione di bridge e di scacchi, era laureato in matematica, parlava italiano meglio di me, cantava, recitava. Era di un’intelligenza superiore legata a una gentilezza infinita, che poi per me è la qualità massima dell’uomo. Se c’è la gentilezza, abbiamo dei rapporti anche umani e artistici. Se non c’è la gentilezza, può andarsene.

Programmi per il futuro?

Intanto ancora un film con la “Società Dante Alighieri”, sull’esilio di Dante. Una specie di fantasia sull’assurda leggenda dell’esilio di Dante, che chiameremo “Il trono vuoto”. Infatti non si sa bene dove sia stato. E poi un film mio, a Napoli finalmente, su un grande personaggio che ho amato, scritto, lavorato e studiato per quarant’anni, che è il principe di Sansevero, quello della Cappella Sansevero. Una fantasia su questo principe, come se arrivasse oggi a Napoli. Ho già scritto la sceneggiatura, e sto aspettando il via da parte dei produttori, ma penso che questione di mesi e partirà.





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