Coronavirus, la Napoli dei balconi
La città resta a casa e riscopre quel luogo eduardiano e simbolo del Sud
di Max De Francesco
Responsabilmente a casa. Napoli ai tempi del coronavirus è città allineata. E responsabilmente riscopre il balcone. Sua maestà il Balcone. Palcoscenico a distanza di sicurezza, una fresca socialità tra ringhiere e fiori, la condivisione “sospesa” di una canzone, di un sentimento, di una paura, di una speranza certificata. Girano idee di flashmob sui social: tutta Napoli sui balconi a cantare e ad applaudire l’Italia dei medici, degli infermieri, degli operatori socio sanitari, dei volontari… ma l’applauso già c’è, con o senza flashmob. La Napoli dei balconi c’è. Tra i palazzi spaccati dal cielo, nei quartieri precipitati nel silenzio, nei piccoli o nei grandi appartamenti, da Posillipo a Scampia, la città recupera il mito di quel luogo che la Serao considerava necessario “organo di respirazione”. Desidero condividere uno dei capitoli del mio nuovo libro, “Tropico della spigola” (Iuppiter edizioni), dedicato proprio all’identitario spazio d’aria del focolare partenopeo, perché si sappia quanta civiltà risieda in quel cantuccio rigenerativo, in quella pausa en plein air. Responsabilmente a casa e meravigliosamente sui balconi.
(Tratto da Tropico della spigola). ...Napoli è un sontuoso arabesco in cui la perfezione disarmonica e l’unicità della trama sono determinate da una chiara convivenza tra i labirinti del sottosuolo, il reticolato notturno dei bassi, le ferite dei vicoli, i rotoli di scale e scaloni, le lingue improvvise di tufo e gli occhi vistosi dei balconi, mai sporgenze di funeste giornate, ma per tradizione luoghi di rigenerazione, di attese, di palpiti e folate di libertà. Strade sospese in aria: Matilde Serao, nel suo giro antropologico e letterario tra gli spazi napoletani, sosteneva ne Il paese della cuccagna che a Napoli c’è qualcosa che non si vede da nessun altra parte d’Italia: «Ogni finestra, a partire dal primo piano, ha il suo balcone particolare (…) non sono ornamenti, né oggetti di lusso. Sono organi di respirazione. Permettono di sfuggire al calore della stanza, di vivere un poco all’aperto; sono come un pezzetto di strada issato al primo o al secondo piano». Domenico Rea ed Eduardo ne furono cantori esemplari. Nella raccolta di articoli Il re e il lustrascarpe, il primo scrive: «Da noi le case non portano doppi infissi, doppi vetri. La finestra dà un senso di prigionia. Il balcone è invece il simbolo del Sud»; e ancora in Vivere a Napoli ricorda le citazioni paterne: «Meglio, molto meglio mio padre che, all’acme dell’estate, si metteva seduto in mutande a braghe sul balcone e, dando qualche boccata di pipa, parlava felicemente con mia madre delle sorti del mondo che, come dice Shakespeare nel Timone d’Atene, va avanti, ma peggiora». Il secondo, in Questi fantasmi, inaugura il monologo cult di Pasquale Lojacono, in rigorosa pausa caffè en plein air, con queste parole: «A noialtri napoletani, toglieteci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinuncerei, tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato».
Poeta dei grandi balconi “alla romana” del corso Vittorio Emanuele fu l’elzevirista Carlo Nazzaro, innamorato di queste logge brevi dalle ringhiere «giudiziose e discrete». L’intenso Guglielmo Peirce, in Nostalgia di Napoli, raccontò la cotta per una Giulietta del Petraio che, affacciata tra vasi di fiori, gli gonfiava il cuore solo col cenno della sua manina bianca. Avamposto di ricarica energetica, eden tascabile e sospeso tra gerani e aromi di basilico, dalla Pignasecca a Posillipo, il balcone è sempre stato scrigno d’amore, cassetto dei sogni. Dipinti e canzoni raccontano di spasimanti che stanno sempre sotto «’a chella fenesta», nella speranza che Marie, Caruline e Nannine si sveglino e aprano «vucchelle addurose ‘e cerase». Immenso nella sua dolcezza cromatica è il dipinto Amore al balcone di Edoardo Dalbono che ritrae una fanciulla col ventaglio nell’eterna favola dell’attesa. Affetto da inguaribile “balconeide” fu Pietro Scoppetta, pittore amalfitano della bella epoque, cronista dei vicoli, che amava illustrare zoomando su serenate live. Infinita la lista dei poeti delle ringhiere. Dalla Serenata napulitana di Salvatore Di Giacomo (“dimme, dimme a chi pienze assettata, sola sola addereto a ‘sti lastre?”) a Scetate di Ferdinando Russo («...nun te si’ scetata, sta fenestella io nun veco arapì»), dalla Canzone bella di Vincenzo Russo («Vuje ca d’ ’e bbelle la cchiù bella site, veniteve a affaccià for’ ’o balcone») a Serenatona di E. A. Mario, in cui l’innamorato porta sotto al balcone «duicientotrenta manduline, ciento chitarre e uttanta contrabbasse» perché «tutta Napule, embè, stasera ha da sapè ca i’ voglio bene a chi vo bene a me!»: insistente e rumorosa, l’azione persuasiva del dichiarante non aspira a salire tre metri sopra il cielo, ma si ferma a un balconcino «’mmiez’ a li rose», aspettando che la bella «s’affaccia e chiamma».
Eduardo Nicolardi, giornalista e poeta, passò mesi in via Santa Teresa, sotto casa della diciottenne Anna Rossi, andata in sposa, per volontà paterna, al ricco e settantacinquenne don Pompeo Corbera. Nicolardi non mollò quel sentimento: ogni volta che usciva dalla redazione del Don Marzio con il suo cappello di paglia e la camminata investigativa, s’appostava sotto quel primo piano, sperando che Anna s’affacciasse e mostrasse i suoi occhi. Si racconta che una notte il giornalista, disperato nel saperla tra le braccia del vecchio, ebbe la sensazione di scorgerla tra i vetri, mentre accennava un saluto. Fulminato da quella visione, geloso fino allo sfinimento, si precipitò al Gambrinus e, sorseggiando caffè e anice, scrisse di getto Voce ‘e notte, la serenata delle serenate, sublime canto di collera e tormento. Il destino volle che Pompeo Corbera finì pochi mesi dopo e Nicolardi salì al primo piano a prendersi la sua Anna e la sua chiave dei sogni. Era il 1903, non c’era WhatsApp e l’amore fioriva sui balconi.