Giustizia e verita' per Mario Paciolla

Era diventato giornalista con Chiaia Magazine e Iuppiternews. Il ricordo

    di Redazione

Volontario esperto, recuperatore di sogni, progettista di speranze, Mario Paciolla era anche un giornalista. Lo era diventato scrivendo appassionati articoli di viaggi sulle testate Chiaia Magazine e Iuppiternews. Sì, proprio su Iuppiternews, in cui aveva trovato la libertà di esprimersi e di proporre i suoi reportage e le sue riflessioni di politica internazionale. Mario teneva molto alla scrittura e all’importanza dell’informazione libera e non compromessa. Un motivo in più per non perdere un solo istante nella ricerca della verità sulla sua morte in Colombia. Nel nuovo numero di Chiaia Magazine (www.chiaiamagazine.it) lo ricordiamo con una cover illustrata da Lorenzo Cipollaro e pubblicando uno dei suoi pezzi più belli, scritto dopo il viaggio in bici in Andalusia, dal titolo «Tutte le voci portano a Napoli». Articolo uscito su Iuppiternews nell'ottobre del 2013 che riproponiamo anche qui insieme all'editoriale del direttore Max De Francesco.

TUTTE LE VOCI PORTANO A NAPOLI  (di Mario Paciolla)

La voce di Napoli è ovunque. Almeno ovunque io sia stato. Nell'estate del 2007, la incontrai per ben due volte in una delle capitali del mondo. Dovevamo raggiungere Westminster e cambiammo linea alla stazione di Embankment. Mentre percorrevamo gli immensi corridoi della rete metropolitana più antica e grande del mondo, un brivido entrò dall'orecchio, mentre un gruppetto di artisti di strada richiamavano alla mente l'eco d'una dolce "Santa Lucia". Il giorno dopo andammo a fare compere a Covent Garden, una delle zone più movimentate della città, costellata di mille bancarelle e numerosi ristorantini turistici. Da una di quelle piccole piazzette all'aperto uscì un cameriere tonante. L'intera piazza si fermò ad ascoltare la canzone d'amore, che come un sole uscì a rischiarare il grigio cielo londinese.

Ritrovai la voce di Napoli numerose volte durante il mio soggiorno itinerante in Andalucia. A Cadiz, piccolo lembo di terra lanciato con un lazzo di cemento nell'Oceano Atlantico, lessi il suo nome. Passeggiavo lungo il corso, con l'Oceano di fianco, in direzione opposta al castello di San Sebastian. Cercavo nell'ombra notturna la grande cupola dorata della cattedrale, quando distratto, guardando dinanzi a me scorsi una grande insegna tricolore col nome “Caruso”, che dava il nome alla modesta pizzeria. Comprai una margherita pessima, piccola e costosa per rendergli omaggio nel porto dei poeti. Giunto a Tarifa, mi persi tra i piccoli barettini del borgo marinaro ed anche lì scorsi una piccola insegna "Vesuvius Café", con una sua foto accanto. Affrontai una lunga discussione sulla musica classica con la "Abuela Carmen", la nonna di San Sebastian che mi adottò durante il mio periodo di lavoro a Valencia. Mi disse che fremeva ogni volta ascoltava la Callas cantare e che l'Italia era stata resa grande dalla voce di Pavarotti. La ascoltai a lungo, prima di rispondere.
 
"Tutto quello che vuole, Abuela. Però il migliore, il re, il più grande di tutti i tempi, resta comunque Caruso...". Mi guardò un po' contrariata, sostenendo che la voce di Pavarotti forse, tecnicamente, era più maestosa. "Probabilmente sì... l'unica differenze è proprio questa. Pavarotti canta con la voce. Caruso col cuore". Si fece una grossissima risata grossa, e mi sorrise, acconsentendo. Potrei continuare ancora, dicendovi che l'altro giorno l'ho ascoltata anche tra i piccoli borghi fiorentini. Senza dimenticare che la voce di Napoli è arrivata sino ad Iquitos, nel pieno della foresta amazzonica. A volte mi chiedo perchè sono costretto ad andare fuori per amare la mia città. Perché non posso essere libero di ascoltare davanti Castel dell'Ovo il vecchietto paffuto col violino e cantare con lui davanti Santa Lucia o inneggiare ad una bella giornata di sole. Perché non posso andare fiero della mia città, leggendo inchiostro parigino, Stendhal che dice che l'unica possibile capitale d'Europa insieme a Parigi e Londra, è solo Napoli. Goethe che prima di "vedere Napoli e poi morire", aveva visitato sia Roma che Firenze. Caruso, la voce pulsante e vibrante della passione napoletana, inebria le orecchie del mondo. Voce del cuore. Voce d'amore. 
A qualsiasi straniero mi chieda come o cosa sia Napoli, rispondo "Vedi e ascolti Napoli, poi muori", con la stessa presunzione dei vecchietti granadini nascosti nell'ombra dell'Albayzìn, che indicando l'Alhambra dicono "No hay cosa peyor por un hombre, de ser un ciego a Granada", e se ne vanno. Molte volte, per parlare di Napoli, dico semplicemente, come scriveva Croce, "Napoli è un Paradiso abitato da diavoli”. Gli stessi diavoli, senza onore né patria, che hanno profanato la tomba dello spirito napoletano.
 
C'ERA UNA VOLTA MARIO (di Max De Francesco)
 
Aveva gli anni di Cristo, parlava più lingue degli apostoli, scriveva poesie, recuperava sogni nei Sud del mondo, aveva il talento dell’inquietudine, attraversava terre dove gli occhi dell’inferno non chiudono mai le palpebre. C’era una volta Mario, Mario Paciolla, il piccolo vichingo del Rione Alto, il rematore di pace che seminava ideali, il progettista di speranze dalla camminata volante, con quel volto così dandy da farmelo sembrare una rockstar in pausa concerto e in guerra con le visioni. Per caso, di notte, ho visto la sua chioma ramata in tv e ho appreso una notizia che fatico ancora ad accettare:«Volontario Onu italiano di 33 anni trovato morto in Colombia». E poi l’immagine del villaggio di San Vicente del Caguan, di una casa senza colori, così lontana dai mari di Napoli e dal tepore di una madre, e ancora l’ipotesi del suicidio, assurda per chi ha “vissuto” Mario, e poi la pista dell’omicidio, il racconto delle ultime telefonate alla famiglia in cui voleva tornare in Italia e lasciarsi alle spalle i tormenti di quei giorni. Tutta la sua favola mi si è aperta dentro, in una notte di zapping furioso contro le cronache del reale e l’assedio di congetture, tipico dei “casi” irrisolti che tanto fanno male. Perché quella di Mario, che mai sarebbe voluto essere un “caso”, era una favola in cui mi sono trovato a passare anch’io, una mattina lucente di oltre dieci anni fa, quando si presentò in redazione perché voleva diventare giornalista. Di fronte avevo un ventenne timido e scrutante, pronto alla scrittura e all’avventura. Iniziò a collaborare con i suoi pezzi “alla Chatwin” sia su Chiaia Magazine che su Iuppiternews, imparai a conoscerne a fondo l’integrità morale, la testa libera da faziosità e logiche di gretta appartenenza, m’innamorai della sua attitudine alla partenza verso posti del mondo che non vedrò mai e della bellezza dei suoi ritorni in redazione, sempre, come diceva lui, con un “pensierino del viaggio”, gesto di amicizia e di nobile riconoscenza per il tesserino di giornalista pubblicista che, mi confessò con un sorriso pieno, gli fu prezioso per entrare nella task force del Papa nella sua ultima visita colombiana. 
Troppe cose belle spazzate via in una volta sola. Troppe. E se è vero che la morte non colpisce i miti né i leoni, mi mancherai e ci sarai ogni volta che guarderò la bottiglia di ron che ci regalasti a Natale o quella foto che mi inviasti tempo fa, in cui con l’aria di Lennon, appagato nel verde, sei pronto ad andare col tuo zaino blu Chagall e quel fiore di sole che atterra ogni parola superflua.

 

 

 

 

 





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