Lucio Battisti, egemonia e poesia

Grandezza di un artista che mantenne 'nel vago' le sue preferenze politiche

    di Mario Vittorio D'Aquino

“Il carretto passava e quell'uomo gridava gelati...” è l'inizio di un verso de “I giardini di marzo” iconica canzone di quel cantante riccioluto dal viso bambinesco e ancora chiacchieratissimo che fu Lucio Battisti. Autore, insieme al suo collaboratore e scrittore di testi Mogol, tra le tante di “Un' avventura”, “Acqua azzurra, acqua chiara”, “Non è Francesca” e “Per una lira”. Originario di Poggio Bustone, nel Lazio, era tifoso della prima squadra di Roma tant'è che oggi, ad ogni vittoria interna degli aquilotti, viene intonata ancora la sua canzone - forse meglio riuscita – citata al primo rigo. Il suo periodo di maggior splendore dal punto di vista artistico fu negli anni '60 e '70: anni di rinascita e di boom economico ma anche delle manifestazioni sanguinolente e dei cortei studenteschi. Tempi in cui la politica era una cosa seria, una faccenda primaria.

Nelle case arrivava la prima tv a colori e veniva inaugurato il secondo canale. I vinili erano ricchi di dischi di un nuovo genere americano chiamato rock e la musica leggera italiana era una delle migliori al mondo. Oltre alle immense doti sui palcoscenici italiani e al suo viso fanciullesco, quasi un po' beffardo, la carriera del cantante laziale fu al centro di grandi polemiche circa la sua presunta visione politica “tendente al nero”. Battisti, dal canto suo, non ammise mai a quale partito s'ispirasse e il mistero non si è risolto nemmeno post mortem.

Si badi bene l'articolo non vuole in alcun modo rivendicare la veridicità delle voci che lo facevano vicino all'ambiente di destra per mero interesse politico e propagandistico ma solo di curiosare intorno a quell'aura di mistero che si creò intorno a lui. Il discorso va contestualizzato. Come detto siamo tra gli anni '60 e '70 e l'Italia stava per attraversare un decennio acceso dal punto di vista politico, ricordato come Anni di piombo suggellato con la nascita dei gruppi criminali delle BR. Gli scontri tra movimenti extraparlamentari di destra e di sinistra erano quotidiani.

Si moriva giovani in quel decennio: con i “compagni” che mimavano il gesto della Calibro 38 e si muovevano col motto “Uccidere un fascista non è reato” e con i “camerati” che invece preferivano il manganello, schierarsi su un determinato versante poteva costituire un rischio per l'incolumità. Col senno di poi, i “rossi”, nonostante fosse caduto il comunismo nel 1989, si dimostrarono i più rapidi a creare un'egemonia culturale e diffonderla a macchia d'olio pre, durante e post la caduta del movimento. Il termine “egemonia” deriva dal greco “egemone” e significa “supremazia assoluta; direzione, guida politica o culturale”. Comunemente chiamato sotto mentite spoglie “fenomeno del pensiero unico” o “globale”, l'egemonia applicata a rango di indirizzo culturale serrato e fazioso ha prodotto e produce divisioni intellettuali accese con arrogante seppur fasulla supremazia di una formazione culturale sull'altra.

Questo modus operandi di gramsciana impronta si diffuse nel post guerra in tutte le fonti e sedi di conoscenza più importanti: dai mass media (quali televisioni, radio, stampa) alle arti, dalla cinematografia alle scuole/università con tanto di revisionismo storico a tutto spiano. Come qualunque pensiero “unico”, “globale”, “egemone”, che dir si voglia, esso era ed è ancora, per certi versi, legato strettamente alla politica. Chi non si omologava a quel sentiero politico e culturale era tacciato come un “bigotto”, “emarginato” nel migliore dei casi; censurato o deriso dall'opinione pubblica nel più comune; minacciato fisicamente nel peggiore.

Quel pensiero prese il nome di marxismo culturale, ma oggi fa più chic chiamarlo politicamente corretto o per la moda di usare termini anglofoni politically correct. Questo potrebbe già offrire un indizio del perché Lucio Battisti volle rimanere estraneo al dualismo infernale “rosso o nero” e mantenne quest'aura enigmatica che perdura ancor'oggi. Dubbi e misteri che potrebbero avvalorare una tesi sulla visione politica dell'artista laziale pervengono se ci mettessimo ad ascoltare “La canzone del Sole” che parla di un “...mare nero, mare nero tu eri chiaro e trasparente come me...” oppure ne “La collina dei ciliegi” in cui si sente un ambiguo “...boschi di braccia tese...”. E ancora “...l’immensità si apre intorno a noi, s’innalzano purissime…” allusione alle scelte eroiche, come “le discese ardite e poi le risalite…”.

Troppo poco per farne una prova, ma le allusioni sono pungenti. L'immenso Lucio con la sua voce melodiosa e adolescenziale riusciva ad entrare nel cuore di tutti. La sua capacità di interpretare i testi di Mogol lo fecero un artista eccezionale e ancora attuale. Egli ha fatto amare, ballare, cantare, unire, appassionare ma anche dividere e discutere.  Insomma tutti gli elementi che fanno di un artista una leggenda. Per dare una risposta “politica” a chi la cercava in quest'articolo bisogna in realtà porsi le giuste domande: “In un momento così concitato come quello valeva la pena esporsi?”. Risposta: “Sicuramente no”. “Hanno un significato doppio i versi sue nelle canzoni?”. “Probabilmente sì”. “Nel caso si fosse esposto, avrebbe avuto la stessa fortunata carriera e le stesse opportunità offertegli?”. “Con quasi tutta probabilità, no”.

Il mistero resta fitto e inconcluso.  I fan lo ricorderanno per sempre e – forse meglio così - per la sua bravura artistica unica e inimitabile.

“... al 21 del mese i nostri soldi erano già finiti...”.





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