Pandemia, colpo finale all'istruzione
Dati impietosi per scuole e universita' italiane. Cresce l'analfabetismo. Nodo innovazione
di Mario Vittorio D'Aquino
Il rinnovamento non può che venire dai giovani. Sono il motore del futuro, i diamanti grezzi da perfezionare e inserire nei posti di lavoro, e al tempo stesso sono coloro che portano, già dalla nascita, il compito di sanare una situazione debitoria del Paese frutto di errori di decenni. Gli stessi giovani che quotidianamente sono nel mirino di qualsiasi giornale, rete TV o trasmissione radio che trattano l’argomento: colpevoli ma mai vittime. Capri espiatori di chi vuole deresponsabilizzarsi dai numeri oscillanti dei contagi. Giuseppe Natalini direttore della Terapia Intensiva della Poliambulanza di Brescia lancia l’allarme rilasciando delle preoccupanti dichiarazioni a L’Espresso: “[…] Fa un po’ sorridere - sostiene - che la colpa della pandemia sia degli adolescenti. È un Paese che ha bisogno di cercare un colpevole e punta il dito. Non credo che sia un aperitivo a far risalire il contagio.”
La pandemia (anche più del dovuto) ha stressato diritti che fino al marzo scorso venivano considerati da tutti “inviolabili”. Al primo posto, l’istruzione. Per non arrestare un sistema già in palese difficoltà e da riformare, si è cercato di trovare una via alternativa che sarebbe servita a rimediare il vuoto scolastico della prima emergenza. È nata quindi la DAD (Didattica A Distanza) che a parere della maggioranza degli alunni, dopo un’euforia iniziale, si rivela un vulnus per gli studenti che, secondo dati IPSOS, per il 46% considerano l’anno scolastico 2020 un “anno sprecato”. E questo peggiora la condizione del primo dei Paesi d’Europa e il dodicesimo al mondo (dati OCSE 2019) con più alto tasso di analfabetismo, concentrato in particolare nel Meridione. In Europa è stimato che il 10,2% degli studenti abbandoni la scuola prima del diploma, l’Italia (dati 2019) registra il 13,5% di dispersione scolastica (fonte: orizzontescuola.com). Il susseguirsi dei ministri dell’Istruzione che si sono affrettati nel copiare (male) modelli scolastici dei Paesi europei dimenticandosi in che stato versano le aule italiane ha lasciato un’eredità pesante. Lampanti sono gli esempi: nel 2015 è stata resa obbligatoria l’alternanza scuola/lavoro con l’obiettivo di “dedicare un’esperienza formativa in grado di applicare sul campo lavorativo le conoscenze apprese dallo specifico liceo/istituto tecnico”. Nobile iniziativa che però perde credibilità quando i giovani studenti devono (a proprie spese) raggiungere le sedi opportune, talvolta difficili da raggiungere oppure svolgere mansioni completamente fuori percorso formativo con un’insoddisfazione crescente tra gli alunni che restano delusi da questa opportunità gestita male.
Ma l’iniziativa che è stata menzionata come puro spreco del denaro è l’immissione dei banchi con le rotelle. L’ultimo provvedimento dell’ex ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, sostituita nel governo Draghi con il ministro Patrizio Bianchi. Scuole rimaste comunque chiuse, sebbene uno studio indicasse che il virus proliferi più nei pullman e sulle metro che nelle aule. La scelta dei colori per le zone più o meno colpite dal contagio e il laissez-faire dello Stato sul potere decisionale ha permesso alle Regioni di controllare tutte le attività, tra cui le scuole. Secondo Save the Children gli scolari di Milano hanno frequentato per 112 giorni, quelli di Bari 48. Non sarà difficile immaginare che fioriranno generazioni di analfabeti (funzionali) che in Italia rappresentano già circa 3 persone su 10.
Se per le scuole primarie e secondarie la situazione non è del tutto compromessa, il ko tecnico è definitivo per i “dimenticati per eccellenza”: gli universitari, che non hanno meritato nemmeno l’attenzione dei governatori nelle loro esternazioni. Illuminante in questo senso l’editoriale di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera che evidenzia come l’Italia fosse, già prima del Covid-19, fanalino di coda per le opportunità che offre prima, durante e dopo la carriera universitaria di uno studente. Nonostante una crescita apparente delle immatricolazioni (si stima un 5% in più del 2019), un’estensione della no tax area varata dal governo Conte Bis e un aumento del fondo integrativo per le borse di studio di 40 milioni la Eurydice, ovvero la rete di informazione dell’istruzione nell’UE, ha messo a confronto le tasse che gli studenti europei nei diversi Paesi pagano ogni anno: in Italia si versano in media 1.628€, tra i primi posti in classifica. La Francia prevede invece tasse molto basse; in Germania non sono previste tasse di iscrizione né nel primo né nel secondo anno ma chi non rispetta le scadenze va incontro ad una sovrattassa di 500€ a semestre; nei Paesi scandinavi - eccetto la Norvegia - la Scozia e la Grecia non sono previste tasse ma lo studente fuori corso paga alcune “penali”. Sempre secondo Eurydice l’Italia è una delle nazioni che offre meno sussidi agli universitari: solo il 14% è il fortunato ad avere borse di studio a fronte del 92% in Danimarca del primo ciclo e il 77% e del secondo che adotta modelli diversi di assegnazione della borsa di studio ovvero per universalità, necessità e meriti. La Spagna e la Francia riescono a soddisfare una gamma di ragazzi tra il 30% e il 34%. La Germania viaggia su un altro pianeta: il 12% degli universitari (quasi come la percentuale italica delle borse di studio) riceve un finanziamento in parte gratuito e in parte come prestito senza interessi. Quest’ultimo è ricoperto quando il laureato troverà un posto di lavoro. Lo stivale è tra gli ultimi posti per gli universitari che, tra i 30 e i 34 anni sono riusciti a completare gli studi (circa il 27%); la media europea è del 40,3% secondo Eurostat. Solo la Romania ci precede.
Per chiudere l’elenco di dati impietosi notiamo che un laureato italiano che lavora nel suo Paese percepisce uno stipendio solo del 19% rispetto ad un suo pari non laureato; nell’area OCSE la percentuale è almeno il doppio. Nonostante i numeri da nazione del Terzo Mondo la damnatio memoriae caduta sull’università italiana pare sia un male incurabile che registra un elettrocardiogramma piatto in termini di innovazione da ben prima dell’avvento della pandemia.