Quel cinema dei condannati a morte
Da 'Il Miglio Verde a 'La vita di David Gale': i film con la pena capitale
di Mario Vittorio D'Aquino
La vita di David Gale è il prezioso film, disponibile su Netflix, diretto da Alan Parker nel 2003, in cui si raccontano le controverse vicende di un personaggio fantastico, David Gale (Kevin Spacey) appunto, il quale è un fervido attivista contro la pena di morte oltre ad essere un acclamato professore universitario. Dopo una festicciola accademica, David ubriaco consuma con una studentessa che testimonierà alla polizia che il rapporto non sia stato consensuale. Nonostante fosse stato scagionato dalle accuse false della ragazza, la credibilità come attivista e come professore collassa soprattutto dopo un dibattito feroce avuto con il governatore del Texas, un conservatore e a favore della pena di morte, in diretta tv. Gale, che abbraccia sempre troppo spesso bottiglie di superalcolici e dopo aver divorziato con la moglie, si ritrova invischiato in una vicenda di stupro e omicidio della sua amica e compagna di lotte ideologiche Constance Harraway (Laura Linney): viene condannato a morte, come prevede la legislazione dello Stato texano. Gli ultimi tre giorni, l’avvocato difensore combina un’intervista ad un’ambiziosa giornalista, Bitsey Bloom (Kate Winslet), e Gale si apre totalmente a lei dicendo che fosse innocente e vittima di una cospirazione guidata da un potere superiore che lo avrebbe voluto morto. Attraverso la confessione di possedere varie cassette di video registrate e nascoste in tutta la contea, Gale convince la giornalista e un suo gregario a portare alla luce tutta la verità.
La filmografia è piena di altri esempi anche meno pedagogici della pellicola di Parker. Tra i famosi: Il fuggitivo (1993), in cui un dottore Richard Kimble (Harrison Ford) viene ingiustamente condannato a morte per l’omicidio della moglie, ma il pullman della polizia carceraria, per via di un ammutinamento interno dei prigionieri, è causa di un incidente tragico. Il dottore è uno dei pochi che si salva e la caccia all’uomo, gestita dal marshal Samuel Gerard (Tommy Lee Jones), inizia. Con l’avanzare del film i pezzi del puzzle si incastrano perfettamente e il dottore, ben prima della polizia, riesce a dimostrare da solo la sua innocenza.
Un’altra pellicola è Il Miglio Verde, tratta dal romanzo omonimo di Stephen King uscito tre anni prima (1996), sicuramente meno dinamica del precedente film ma, probabilmente più famosa, e strumentalizzata come emblema della lotta contro la pena capitale. La trama racconta di un condannato a morte per stupro di due gemelline, John Coffey (Michael Clarke Duncan), che viene descritto capace di poteri divini e ultraterreni e di assumere atteggiamenti misericordiosi e compassionevoli con l’umanità tutta. Il sovrintendente è Paul Edgecombe (Tom Hanks) e l’ambientazione è il carcere di Cold Mountain. L’accoglienza è stata divisa: un critico del New York Times lo ha definito come un “film che fa sanguinare gli occhi agli adolescenti spericolati” nonostante il lungometraggio si fosse assicurato quattro premi Oscar. L’appropriazione culturale e ideologica del film è molto discutibile, poiché l’andamento della trama assume un contorno fiabesco e la morale s’impregna di una noiosa retorica. La cinematografia hollywoodiana e non si è – quindi – spesa molto per la sensibilizzazione su questo tema.
Il film sopracitato di Alan Parker offre numerosi spunti di riflessione: in primis la pratica della presunta tortura che l’amica di Gale ha subito è una tecnica utilizzata dal governo comunista rumeno sotto Ceausescu e consisteva nell’ammanettarsi, ingurgitare la chiave che ti avrebbe salvato e mettersi una busta in testa fino a soffocare, in secundis dopo un rapido confronto tra il professore e la sua compagna di lotta si dice che gli Stati americani che non prevedono più la pena capitale (New York, Washington, Virginia, Illinois…) non subiscono un aumento di reati punibili con essa ma si omette che quelle stesse contee vivono una condizione sociale meno agitata e più elitaria rispetto ad altri Stati che ancora adottano la pena di morte (Texas, Alabama, Carolina del Sud, Dakota del Sud…) e in condizioni veramente estreme e molto eccezionali (come in Ohio). I reati punibili con la massima pena sono abusi su minori, favoreggiamento e/o partecipazione ad associazioni terroristiche, uccisioni di militari o federali, alto tradimento, omicidio…
Negli Stati etici o religiosi così come quelli antichi, la pena capitale era ed è una dimostrazione esemplare per correggere in modi drastici la cattiva condotta di quella data società: un esempio sono i Paesi con forte influenza islamico-musulmana che, a differenza di quelli cattolici o ortodossi, l’arbitrio sulla vita e sulla morte non è vincolato alla sola figura divina. Negli Stati ancora sotto regime totalitario come Corea del Nord, Cina sono ancora previste torture, massime condanne e campi di lavoro forzati per i dissidenti soprattutto politici.
L’esecuzione della pena capitale e la sua divisione ideologica e culturale è secolare e molti filosofi, pensatori, politici, attivisti, sociologi hanno detto la propria. Seneca non tollerava la facilità con la quale i romani ricorrevano alla pena di morte, ma rimaneva favorevole alla stessa condanna per delitti “eccellenti”. Dello stesso avviso era Tommaso D’Aquino che ammetteva la liceità per la conservazione del bene comune nella sua Summa Theologie in cui fa riferimento a S. Paolo di come “un po’ di fermento può corrompere tutta la massa”. Per Emmanuel Kant la pena di morte era l’esercizio che facesse funzionare appieno la giustizia, “un imperativo categorico” capace di esaltare essa sola il principio di uguaglianza, distaccandosi così dai suoi contemporanei illuministi come il postulato di Cesare Beccaria Dei diritti e delle pene in cui egli scriveva che condannando un individuo alla pena capitale, lo Stato starebbe commettendo un omicidio a sua volta.
Secondo Nietzsche, sempre distaccato dalla vulgata del libero arbitrio, non credeva nella missione rieducativa (concezione dilagante nel suo periodo) dell’esperienza carceraria (un po’ come gli psichiatri del carcere provano a recuperare Alex DeLarge, il protagonista di Arancia Meccanica di Kubrick, per intenderci) ma la morte è l’unica soluzione che può restituire al criminale un minimo di dignità, liberandolo così dal pentimento imposto dalla morale cristiana. Per Tolkien invece prevaleva il dogma cristiano come detto prima. Dostoevskij ne L’idiota e Tolstoj così come Victor Hugo sono figure lampanti che si sono contrapposte alla pena di morte.
Il monito di Popper di non tollerare gli intollerabili assieme allo scetticismo nietzschiano sulla possibilità che l’esperienza di reclusione sia sempre e comunque rieducativa e che la giustizia operi sistematicamente per bilanciare la condanna commisurata al reato commesso è del tutto lecita come è doveroso divulgare che la pena capitale è gravosa in termini meramente economici ed è erroneamente gestita nel sistema giustizialista americano e nella – ovviamente – dittatura sino-coreana, in cui la pena non è approcciata come deterrente e correttiva verso le società e quindi non assume nessuna connotazione etica ma ha uno scopo glacialmente giuridico e politico.