Uno scatto sulla banlieue napoletana

Il fotoreporter Salvatore Esposito si racconta: Scampia, Genny e una vita dietro l'obiettivo

    di Maria Neve Iervolino

Il 3 settembre in occasione del festival del fotogiornalisto di Perpignan sono stati annunciati i cinque vincitori delle borse di studio di Getty Images. Tra questi spicca Salvatore Esposito, unico vincitore italiano dell’edizione 2015, con il progetto “What is missing”, foto reportage sui giovani delle aree più degradate di Napoli. Il premio lo aiuterà a continuare il suo lavoro sulla malavita giovanile. I Getty Images grants sono stati istituiti nel 2005 per sostenere i progetti di fotografia documentaria più interessanti e che raccontato storie poco conosciute.

È scritto sul tuo sito: “La manovalanza di giovani è l'ingranaggio che porta avanti il mercato dello stupefacente animando vere e proprie "piazze" di spaccio”. In che modo è possibile aiutare i giovani a ribellarsi a questo mondo?

«Con politiche sociali, dando lavoro o gli strumenti per crearsi un’occupazione, si potrebbero aiutare i ragazzi a non avvicinarsi alla malavita. È fondamentale il concetto di responsabilità politiche. Scampia nasce senza scuole e senza supermercati, ciò ha persone disagiate a stanziarsi in periferia, senza poter ricevere alcun aiuto, abbandonate a loro stesse».

Che impatto ha avuto il tuo lavoro sulla periferia napoletana e per i ragazzi con cui hai lavorato?

«Per quei ragazzi penso di essere stato sul piano umano una finestra sul mondo. Le foto sono forti e talvolta non sono state comprese perché alcuni dicono che è un unico modo di rappresentare Napoli, io dico che è un modo di rappresentare un problema».

Cosa pensa dei nuovi scontri che si stanno verificando nei quartieri Sanità e soprattutto Soccavo?

«Da poco sono tornato a Napoli. Il Rione Traiano sta diventato la nuova Scampia, dove in questi anni si è realizzata una forte repressione della criminalità da parte delle forze di polizia. I malavitosi si servono molto dei ragazzi per portare avanti le guerre di territorio: in sostanza i Giugliano vogliono riprendersi gli spazi dai Mazzarella. I clan ad oggi hanno fatto un’involuzione, sia per la giovane età degli affiliati sia perché non si dedicano più all’"imprenditoria". Ciò a causa della repressione da parte dello Stato».

Il tuo lavoro di foto reporter di camorra ti ha mai messo in pericolo?

«Avevo paura, ma delle circostanze piuttosto che dei ragazzi con cui ho avuto a che fare e con i quali ho ancora oggi un dialogo. È l’ambiente in sé a creare paura, e la paura è un sentimento intelligente».

Conoscevi Genny, il ragazzo ucciso nel quartiere Sanità? Cosa pensi della sua vicenda?

«Lo conoscevo perché è stato mio alunno di fotografia. Questo evento fa capire ancora di più i rischi del mestiere sul campo, nel momento in cui gli hanno sparato avrei potuto essere con lui. Era un ragazzo con precedenti, ma non so se fosse legato ad ambienti criminali, forse era nel posto sbagliato al momento sbagliato, oppure era lì perché aveva qualcosa in ballo al centro storico, dove già da qualche anno si spara e si usano i ragazzi».

Cosa provi per Napoli? Di solito i più la amano e la odiano.

«Provo un profondo senso di amore. Odio no perché cerco di capire. Ho letto il “Ventre di Napoli” di Matilde Serao e poco è cambiato: da allora ad oggi la borghesia napoletana non s’interessa del popolo. Non sono un savianista, però mi lascia perplesso il sindaco De Magistris quando sostiene che chi racconta danneggia la città. È la visione distorta di chi pensa che non è possibile cambiare nulla. So che non sono i giornalisti a cambiare il mondo ma la gente, il nostro compito è raccontare».

Cosa ha dato in più al tuo lavoro l’esperienze che hai fatto all’estero?

«Lavorando all’estero ho imparato a capire come si muovono i meccanismi internazionali, ho imparato da colleghi bravissimi, giovani. Ti dà uno scambio con l’esterno e una visione più ampia. Ma Napoli è stata una grande palestra, mi ha insegnato a lavorare: l’esperienza sul campo che non avrei se fossi nato in un’altra città, con un vissuto diverso. Purtroppo, pur continuando ad essere legato al mio territorio non lavoro più con Napoli da dieci anni perché non ci sono soldi, e persiste il concetto di “ringrazia che ti faccio lavorare”. Napoli per me è sempre la prima scelta ma spesso non ti da occasione».

All’estero hanno paura di Napoli e di ciò che mostri?

«Fuori dall’Italia le persone si rendono conto che la mafia è un problema territoriale che riguarda solo persone e ambienti circoscritti. Tuttavia persiste lo stereotipo della mafia creato dal cinema, e crea ancora fascinazione. Io ho provato a rompere questo stereotipo senza sdoganarlo».

Una immagine a cui sei più legato.

«Temo tutte. Tutte sono state sudate e acquisite sul campo durante un lungo lavoro. Una a cui forse sono più legato è visibile, insieme ad altre, sul mio sito www.salvatoreesposito.it, ritrae un bambino che si tuffa in una piscina sulle vele. In generale le foto che preferisco ritraggono momenti positivi».

Sul tuo sito è possibile acquistare il  tuo lavoro editoriale con Angelo Petrella.

«Sì, si tratta del libro “Quello che manca” edito da Contrasto, agenzia con cui lavoro, ha lo scopo di raccontare una storia usando le foto con il supporto della letteratura. I racconti di Petrella hanno seguito le foto con lo scopo di raccontare le vite vere dei giovani degli ambienti della periferia. Non è escluso che a questo progetto ne segua un altro di soli lavori fotografici».

Qualcosa di tuo che vorresti aggiungere a quanto detto?

«Io sono napoletano ho raccontato la mia realtà. Sono stato ai funerali di Genny e lì ho visto giornalisti americani che in questa vicenda cercavano Gomorra; la storia di Genny e quelle dei ragazzi che racconto io sono diverse da quelle raccontate al cinema. Mi dispiace che non si riesca a guardare a certe vicende in modo diverso rispetto a come siamo abituati. Questo vale soprattutto fuori dall’Italia». 





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