1500 euro per raggiungere Lampedusa

L'epilogo del viaggio di Abdullahi Ahmed, oggi cittadino onorario di Settimo Torinese

    di Roberto Rosano

Il racconto di Abdullahi Ahmed continua sulle onde del Mediterraneo. Fuggito da casa sua, una Somalia stremata dalla guerra civile, il giovane riesce ad attreversare il deserto, dove la sabbia e l'afa fanno più paura del mare, per poi aspettare, in Libia, di salire a bordo di quel barcone in legno che sarà la sua zattera per 24 ore. Fino alla meta, l'arrivo, stremato e intriso di speranza, a Lampedusa, la porta dell'Europa. E un nuovo inizio.


Torniamo un attimo al tuo viaggio... Cosa portavi con te, ricordi, fotografie?
«Quando sono partito avevo una maglietta, un pantalone e le scarpe».
 
Neanche uno zainetto?
«Niente. Niente di niente. Assolutamente. Dove lo metti?»
 
Quindi tu per tutto il viaggio, che è durato hai detto...
«Sette mesi».
 
Non ti sei mai lavato, mai lavato, Abdullahi?
«Mi sono cambiato, per fortuna. Quando ero in Sudan, poi in Libia... Però, compravo i vestiti e quelli vecchi li buttavo. Durante i sette giorni nel deserto non ho potuto contattare nessuno».
 
Stavo riflettendo su quanto la tua famiglia fosse in pensiero per te. Tua madre, per esempio, deve aver patito un’ansia infernale in attesa di una tua chiamata. Tu allora avevi diciannove anni!
«Mia madre non accettava, ho dovuto forzare la cosa. I rischi c’erano. Perciò, non ho voluto coinvolgere nessuno nella mia decisione. Un’altra dura prova per i migranti è il soggiorno in Libia dove i neri vengono picchiati, insultati. La Libia fa parte del Continente africano, eppure lì abbiamo incontrato il vero razzismo, il più atroce. Nel 2008 c’era ancora Gheddafi, che dava al Paese una certa stabilità, un controllo, oggi i soprusi saranno inimmaginabili».
 
Quindi le persone che vengono dall’Africa nera, in Libia vengono trattate...
«Malissimo, malissimo. Picchiati senza motivo, sequestrati da semplici cittadini libici, dai quali ci si libera solo pagando. Per non parlare delle carceri. Terribili».
 
In Libia interviene un’altra organizzazione...
«Sì, che ha a disposizione altri due pickup».
 
Qualcuno di voi ha subito violenza?
«Sì, certo, certo».
 
A te è successo?
«Certo. Ti faccio un esempio: in Libia, quando noi migranti salivamo su un pullman, pagavamo il biglietto a bordo. Be’, se il biglietto costava un euro ed io avevo solo dieci euro dovevo dimenticare il resto».
 
Sennò?
«Sennò, in quanto nero, venivo preso a pugni. Se ti siedi in un posto libero ed arriva un libico, devi cedergli il posto».
 
A questo punto?
«In Libia sono vissuto tre mesi, in un alloggio con altri ragazzi somali, aspettando di partire».
 
Con voi c’erano anche donne, bambini...
«Sì, certo».
 
E in Libia ricevevano lo stesso trattamento dei maschi adulti?
«Certo. In viaggio, donne e bambini cercavamo di tenerli verso il centro, quando eravamo nel deserto, ad esempio, ed anche sui barconi per evitare abusi durante la notte. Sì, dobbiamo tutto alla solidarietà tra di noi».
 
E poi venite tutti raccolti sul barcone. Com’era?
«Un barcone di legno. Ci stavamo appena, appena. Si stava seduti. Non potevamo muoverci».
 
E se vi veniva da far la pipì o...
«La facevi lì, al tuo posto, non c’erano bagni».
 
Ma anche...
«Anche… Sopportavi la puzza dell’altro, ci si abitua a tutto».
 
Cosa vi davano da mangiare?
«Una fetta di pane, un pezzo di formaggio ed una bottiglietta d’acqua naturale».
 
Quanto è durato il viaggio?
«Ventiquattro ore e sono stato fortunato. Molte persone c’hanno messo molto di più».
 
Perché le condizioni del mare erano favorevoli...
«Certo, certo. Sono arrivato a Lampedusa il 23 giugno del 2008. Sono partito il 27 novembre del 2007. Sono arrivato di mattina, intorno alle sette e mezza, otto».
 
A quel punto siete passati dal barcone ad una nave della marina, giusto?
«No, no, no, allora, ci hanno solo indirizzato e accompagnato fino alla costa.
 
E lì avete ricevuto assistenza...
«Sì, ci hanno lavati, ci hanno controllato, ci hanno cambiato i vestiti. Ci hanno accolti bene».
 
Di quelle quaranta persone quante sono arrivate in Italia?
«Tutte, per fortuna non è morto nessuno».
 
Hai conosciuto persone che una volta arrivate a Lampedusa hanno cambiato identità?
«Forse ci sono, ma io non ho cambiato la mia».
 
E nel centro di accoglienza di Lampedusa rimani quanto tempo?
«Tre giorni. Il centro all’epoca non era così congestionato, ma già allora eravamo giudicati tanti, troppi. Si è sempre parlato di emergenza, emergenza. Anche quando non c’era».
 
Che ricordi hai di Lampedusa e dei lampedusani?
«Ottimi, Lampedusa è la porta dell’Europa. Le persone che sono passate di là sono solo grate ai suoi abitanti».
 
E poi?
«Il Ministero dell’Interno decide se la persona deve essere accolta».
 
All’epoca chi c’era al Ministero?
«Eh, c’era il governo Berlusconi».
 
Quindi Maroni.
«Sì, credo di sì. Non ricordo. Ci hanno preso le impronte digitali, in ottemperanza all’accordo di Dublino, che secondo molti è il male assoluto. Poi mi hanno mandato a Settimo, dove ho ricevuto la vera accoglienza, grazie all’amministrazione comunale e alla Croce Rossa. Dopo tre mesi ho ricevuto il permesso di soggiorno per ragioni di asilo politico. Anche lì sono stato fortunato, c’è gente che aspetta un anno almeno. Eh, a Settimo avrei dovuto lasciare il centro di accoglienza perché appena si riceve il permesso di soggiorno si viene invitati a condurre una vita indipendente, da cittadino comune, a sostentarsi con il proprio lavoro. Per fortuna l’amministrazione di Settimo mi ha permesso di rimanere ancora un anno nel centro di accoglienza per andare a scuola ed imparare l’italiano. Lì mi sono dato degli obiettivi, per prima cosa imparare la lingua, fare esperienza lavorativa. Ho fatto quattro mesi come magazziniere. Finito l’anno, al centro sono arrivati altri 150 rifugiati somali e mi sono messo a disposizione sia per aiutare i miei connazionali sia i volontari della Croce Rossa».
 
E a quel punto cominci a fare da interprete ai tuoi connazionali...
«Sì aiutavo in ogni modo possibile, li accompagnavo in ospedale e, a quel punto, è nato un altro obiettivo: quello di studiare come mediatore interculturale, che mi ha permesso, una volta presa la qualifica, di lavorare a sostegno dei fratelli migranti. Un altro obiettivo era quello di ottenere la cittadinanza e anche quello sono riuscito a realizzarlo, nel marzo del 2016. Nel 2014 avevo già deciso di impegnarmi nel servizio civile per ripagare questo Paese, che è oggi anche il mio, dell’ospitalità che mi ha accordato. Lavoravo nelle politiche giovanili, organizzavamo eventi che riguardavano anche le elezioni europee... Per questo impegno nel 2014, il Comune di Settimo Torinese mi ha conferito la cittadinanza onoraria».
 
Senti ti faccio una domanda un po’ più personale... Quanto hai speso per il viaggio dalla Somalia a Lampedusa?
«1500 euro, circa. Attualmente si parla di 3000 euro. Il prezzo è raddoppiato. Se le persone vengono arrestate in Libia il costo aumenta».
 
Perché mai il costo aumenta in caso di arresto in Libia?
«Perché se vieni arrestato, devi pagare sennò non esci a prescindere da quali siano le tue condizioni... Donne, uomini, bambini, non importa, se non paghi, non esci».
 
Quindi per uscire, devi versare una sorta di cauzione...
«No, no, non è una cauzione, è un pizzo alla polizia. Lo Stato lo sa e tollera».
 
Tu sei mussulmano, vero, Abdullahi?
«Sì».
 
Sunnita?
«Non importa, sono mussulmano, punto. Non mi interessa etichettarmi in qualche modo, come moderato, radicale... Sono mussulmano e basta, fiero di esserlo...»
 
Com’è l’Islam qui a Torino?
«Se vuoi ti porto con me. Ti faccio vedere la nostra sala di preghiera».
 
Certo. Volentieri.
«Noi organizziamo diversi eventi per favorire l’integrazione e la conoscenza. Da via Saluzzo fino a quella chiesa, vedi? Molte famiglie mussulmane preparano i loro piatti tipici e li offriamo a tutti, in spirito di fraternità».
 
A questo punto, Abdullahi mi accompagna verso la sala di preghiera. Entriamo in un cortile bigio, un po’ sciatto. Varchiamo l’uscio di una sorta di grossa autorimessa. Mi mostra i cartelli che segnalano le telecamere a disposizione delle forze dell’ordine. Entriamo in una specie di anticamera con degli scaffali pieni di scarpe. Ci scalziamo e ci avviamo verso la sala. È buia, il pavimento coperto da una moquette o forse tappeti. L’ho già rimosso. Le pareti sono foderate di libri fino all’inimmaginabile. Dei curiosi volumi, che si aprono al contrario, cioè da sinistra verso destra, con raffinatissime copertine di pelle. Al centro della parete principale c’è uno strano elemento, una specie di nicchia o di pulpito, sormontata da un baldacchino. C’è gente che dorme. Gli chiedo il perché. Mi risponde che per loro la Moschea serve anche all’accoglienza di chi non ha dove dormire, di chi ha bisogno di riposare, perché quella è la loro casa comune. C’è persino un bambino che gioca rumorosamente con cianfrusaglie e rotelle di legno, in compagnia di alcuni vecchi. Lo vezzeggiano in arabo con sorriso compiacente, mentre il piccolo conduce il suo gioco da solo, quasi senza curarsi di loro. Continuando a giocare tra sé e sé, smozzicando parole, come fanno i bambini nei loro divertimenti solitari, in un meraviglioso, candido italiano.
 





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