Il gelo di Eduardo
di Maria Neve Iervolino
Maschera immobile, al centro della scena. Tutto è silenzioso e buio. Solo una luce illumina quel volto fermo e duro. Il profilo è tagliente, il volto scavato, gli occhi stretti scrutano in volto centinaia di facce senza vedere nessuno. La fronte stropicciata dal troppo pensare o dal troppo sentire. Una maschera forte che chiede per sé la scena. Non gesticola, non urla. Se dovesse farlo, la voce non sarebbe potente, sarebbe afona e leggera come un velo. Si posa sottile come brina gelata sulle spalle di tutti gli spettatori, anche quando si trovano dietro le quinte. Una voce stanca, eppure resiliente. Questa maschera è senza personaggio e senza attore, scavalca l’arte e la vita. Questo luogo scuro e freddo come un tempio non è un teatro è la vita di Eduardo.
Le luci tutte si accendono, rivelando un costume stropicciato, un uomo secco, una lacrima negli occhi asciutti, che con fare buffonesco si presenta: Io sono Sik-Sik, è il mio nome d’arte. Faccio il prestigiatore. […] L’imbroglio non c’è, chi lo vede ha visto una cosa per un’altra.
Eduardo invece questo imbroglio lo vuole mostrare, si deve vedere. Solo in questo modo, avvertendo la distanza dall’attore, dalla maschera e dal personaggio, lo spettatore si avvicina, osserva non l’uomo reale, non l’attore, ma la figura di cui non sa nulla, della quale intuisce solo la funzione: rappresentare non una vicenda, una farsa, una commedia familiare avvenuta in un giorno dispari, ma tutte le storie che appartengono al teatro comico del divenire. L’incantesimo di Eduardo è compiuto, lo spettatore adesso è alla giusta distanza, è consapevole.
Il teatro muore quando si limita a raccontare fatti accaduti; solo le conseguenze dei fatti accaduti posssono raccontare un teatro vivo sosteneva Eduardo, solo il teatro può avere questa funzione, e oggi aggiungiamo, solo il tetro di Eduardo può renderlo abbastanza vero da diventare catarsi dello spettatore, ed essere abbastanza falso da dare intrattenimento. Qui è la commistione del riso e del pianto nell’opera di Eduardo. Qui è la risata amara di Eduardo, è la condizione tragica dei personaggi comici, il lasciapassare per chi osserva di ridere, o deridere il protagonista, e contemporaneamente compatirlo.
Un teatro quasi grottesco, in grado di rendere azione la relazione tra riso e pianto operata dalle parole dell’Eduardo scrittore. Ma come poteva trovare egli stesso la giusta distanza tra questi elementi? Con il gelo, il gelo della vita di teatro, che aveva subìto: è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto!, come ammette nel 1984, e che promanava da lui e aveva finito per toccare e congelare i suoi attori, e talvolta feriva i suoi familiari, come disse in una storica intervista il figlio Luca.
Il gelo proprio dell’attore e della vita di teatro, divenuto gelo dello scrittore ha reso il teatro napoletano celebre nel mondo, poiché ha saputo elevare drammi comuni, da fondaco, in tragedie di carattere universale. Emblema di ciò è Filumena Marturano, colei che conosce la legge che fa ridere, non quella che fa piangere, colei che è amata. In una prostituta proveniente da un dedalo di vicoli affumicati si ritrova la grandezza di una Medea.
Filumena: Dummi’ sto chiagnenno… Quant’è bello a chiàgnere…
Domenico: È niente… è niente. He curruto… he curruto… te si mmisa appaura… si’ caduta… te si’ aizata… te si’ arranfecata… He pensato, e ‘o ppenzà stanca… Mo nun he ‘a correre cchiù, nun he ‘a penzà cchiù… Ripòsate!... ‘E figlie so’ figlie… E so’ tutte eguale… Hai ragione, Filume’, hai ragione tu!...
Cala il sipario.