Abdullahi Ahmed ha ventinove anni. È abbastanza piccolo, scuro, ha lo sguardo di un ariete arrabbiato, con occhi grandi e lucidi come macchie d’inchiostro. Ci troviamo in un piccolo locale torinese, stracolmo di studenti. Mi offre un ginseng e iniziamo la chiacchierata, mentre la radio del bar, stranamente, diffonde l’Ave Maria di Schubert.