L'odio, opera profetica in bianco e nero

Il film cult di Kassowitz e' un trattato di storia sulla rabbia 'inevitabile' delle banlieue

    di Mario Vittorio D'Aquino

Dopo quasi 27 anni dalla sua prima uscita, L’Odio di Mathieu Kassowitz continua ad essere un prodotto squisitamente attuale. Probabilmente profetico, vista la crescente ostilità tra i membri della profonda periferia francese, e in particolare parigina, con i bourgeois, i borghesotti del centro. I fatti di cronaca nera, nerissima persino buia che hanno macchiato Parigi nella metà del decennio passato sono noti a tutti come famigerati sono gli attentatori. La curiosità è che molti di questi, di origine berbera, maghrebina vivevano nelle arcinote e pericolose banlieue, i sobborghi francesi troppo spesso dimenticati e bistrattati dalle dinamiche politiche nazionali. Kassowitz ha anticipato così molti degli eventi futuri che hanno poi definitivamente spogliato la Francia come terra della fraternité e dell’égalité tra uomini.

L’Odio fotografa appieno proprio la radicalizzata e rabbiosa periferia della capitale, entrando nelle vite di Vinz (Vincent Cassel) e Saïd (Saïd Taghmaoui), a cui si aggiunge Hubert (Hubert Koundé) il più coscienzioso dei tre. Il degrado collettivo – umano ed urbano – è rappresentato dal grigio scelto come colore unico del film che sta a rappresentare l’abbandono forzato di qualsivoglia possibilità di riscatto, in cui vengono sfumati identità e ogni tipo di sogno. I protagonisti, cuciti dallo stesso regista, non sono costruiti casualmente: Vinz è un ebreo dell’Est, Saïd è un arabo, Hubert è un nordafricano immigrato di seconda generazione. In questo modo è promosso un humus di promiscuità multietnica che non è nient’altro che una polveriera pronta a esplodere in cui vige un flebile equilibrio. Nemico giurato è ovviamente la polizia che ha pestato gravemente un loro compagno, Abdel e in quanto subordinata allo Stato, lo stesso che li ha abortiti come figli non voluti di una terra che per loro è invece casa.

Kassowitz dà vita ad uno spaccato politico e collettivo che non cerca risposte ma suggerisce riflessioni, fuoriuscendo dallo schema del gangster spavaldo e meschino di cui invece il cinema americano è intriso. Anche se il regista francese trova dei collegamenti con il degrado tipico dei gangster movie. Il collante, ad esempio, è il genere pop, sinonimo di un modesto tentativo di redenzione (in fin dei conti dalle stesse interiora nacque il rap, la “musica del ghetto” per antonomasia). Non sfuggono nel film di Kassowitz, infatti, alcune scene in cui un DJ mixa dalla finestra Nique La Police di NTM e Non, Je Ne Regrette Rien di Edith Piaf.

Tra gag surrealistiche e momenti di imprevedibilità con cui si snocciola la trama del film è curioso osservare come i protagonisti siano completamente a loro agio nel “ghetto” creando un rapporto familiare anche con la camera che diventa per loro un accessorio e con la quale si interfacciano diverse volte. Ben diverso è invece quando i tre dovranno spostarsi dalla periferia al centro città: si vivono riprese più nette, più distaccate ed è crescente il disagio espresso anche dai volti poco distesi di Vinz, Saïd e Hubert. Appaiono anche segnali eloquenti di razzismo e snobismo che suscitano pensieri angoscianti nei tre scapestrati. Ciò che risalta di più è però l’esasperazione di Vinz: inizia sin da subito ad avere un rapporto diabolico con una pistola persa da un agente, pensando che quello sia il miglior modo possibile per riuscire a evadere dalla realtà che lo circonda e sconfiggere il malessere interiore che perseguita chi come lui vive alla giornata (non a caso il film si racchiude un arco temporale di 19 ore).

Il gesto delle tre dita a mo’ di rivoltella è emblematico nella scena in cui Vinz imita allo specchio lo spezzone di Taxi Driver in cui De Niro “gioca” con la sua arma. Entrambi i personaggi provano a dare uno strappo alla loro rabbia e al nichilismo verso una società che non li ha voluti e che, probabilmente, li preferirebbe altrove. Il pessimismo è tale che i tre arrivano a formulare una frase in cui vi è concentrata tutta l’universalità de L’Odio: “L’importante non è la caduta ma l’atterraggio. Fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene…”. L’odio chiama odio almeno finché non ci scappa il morto.





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