Tra sacro e profano
A Napoli, costumi pagani al giorno dei morti
di Maria Neve Iervolino
“Persino al dì de’ Morti è festa di gaudio pel popolo napoletano” si legge nell’imponente tomo ottocentesco “Napoli e le sue costumanze” che continua descrivendo in che modo il popolo della città accorresse alle catacombe per visitare i parenti perduti e conversare con loro per poi si riversarsi in strada, a Via Toledo fino alla riviera di Chiaja sgranocchiando teschi e ossa di zucchero: “Sì che ti parrebbe esser tra un popolo di antropofagi”. Il culto dei morti diventa non una festività dedicata al lutto, ma una festa, un’occasione per rivestire allegramente i teschi, per esorcizzare l’idea del trapasso.
Si potrebbe affermare senza timore di sbagliare che la stessa città di Napoli sia nata già col seno colmo di paura e desiderio nei confronti dell’aldilà, in quanto edificata sopra le ceneri della sirena Parthenope. A conferma di ciò si visiti il celebre Cimitero delle Fontanelle, dove un tempo non si andava soltanto a visitare i defunti ma ad adottare, secondo il rito delle anime pezzentelle, coloro che morti per strada, spesso a causa delle epidemie e in condizioni di indigenza economica venivano inumati in fosse comuni. Le leggende più curiose narrano che tra questi resti abbandonati riposino anche le ossa del poeta Leopardi. Gli appartenenti allo strato più povero della società fino al novecento, racconta Matilde Serao, si recavano alle Fontanelle dai morti senza nome recitando preghiere per facilitarne il percorso purgatoriale, sperando in cambio di ricevere i numeri da giocare al lotto oppure una grazia. Un’abitudine che sconfinava nell’eresia, per questo vietata dalla Chiesa per lungo tempo ed oggi riscoperta come tratto caratteristico del folclore locale.
All’interno delle viscere della città convivono, necessari l’una all’altro la fede cristiana e il culto pagano che insieme mischiano nelle tasche dei cittadini, santini dorati e rossi cornicelli; tale binomio è l’unico che possa conciliare il terrore della morte e la tenerezza verso i crani bianchi dei defunti, sentimenti tipici di un popolo che non ha mai avuto prove della Provvidenza.
“Anni orsono, un bravo suonatore di violino […] aveva pazzamente fermato di volersi ammazzare. Si fece egli condurre in sulla punta di Possilipo, e quando il naviglio fu ben discosto, si mise in mano un arancio ed in bocca un cigarro: fumò, cantò, suonò e spiccò finalmente un capitombolo affogandosi nel mare”. Conclude l’enciclopedia delle costumanze “Questa è Napoli con tutte le sue spensieratezze”.