'Mio fratello, uomo di dovere'

L'infanzia, il j'accuse ai magistrati, l'attentato: Maria Falcone racconta il giudice assassinato

    di Roberto Rosano

Del sacrificio degli eroi, dei martiri, conosciamo i minimi dettagli, ma che ne è dei fratelli, delle sorelle, delle madri, dei figli? Nei Vangeli si soprassiede, quasi, al dolore della giovane madre ebrea innanzi a quel patibolo. Poco sappiamo, troppo poco. Ci hanno pensato i poeti a raccontare quell’immenso dolore. Ci ha pensato Jacopone da Todi col suo Stabat Mater a raccontare le sue lacrime. Mentre la scure delle malelingue si abbatteva su Giovanni Falcone, mentre il tritolo faceva saltare la sua auto, lì stava la sorella, Maria Falcone, una professoressa di diritto, come tante, innanzi ad un patibolo, che è sempre lo stesso, sempre pronto per ogni nuovo cristo.

Professoressa Falcone, Lei di chi è figlia?

Io sono figlia di Arturo, un chimico farmacista, direttore del laboratorio chimico di igiene e profilassi di Palermo. Mia madre, Luisa, era figlia di un noto ginecologo, sempre di Palermo.

Una famiglia patriarcale. Una famiglia della Palermo bene...

Una famiglia che ci ha inculcato i valori religiosi e civili e, soprattutto, un grande senso del dovere: una religione del dovere, ad ogni costo, a costo di qualsiasi sacrificio. Al costo che sapete, al costo della vita.

Nella vostra famiglia si annovera anche un sindaco di Palermo: Pietro Bonanno, il fratello della nonna paterna...

Sì, a dire la verità è stato sindaco per pochi mesi. È morto giovanissimo, a quarantaquattro anni. Però riuscì a fare a Palermo cose che non erano state fatte in tanti anni ed è ancora ricordato. Noi abitavamo proprio a casa sua, nella casa che il nonno lasciò a mia nonna in un quartiere...

 La Kalsa!

Esattamente...

Un quartiere sorto durante la dominazione islamica. Uno di quei quartieri di Palermo, che a detta di Simonetta Agnello Hornby, hanno un odore. L’odore del cibo, dei babbaluci, del prezzemolo, dell’olio fritto, delle spezie... E in questo quartiere scorrazzava un bambino di nome Giovanni ed uno di nome Paolo (Borsellino), ma anche tanti ragazzi di mafia. Come quel bambino di nome Tommaso (Buscetta) che lascerà un segno permanente sulla carriera e il destino di suo fratello...

Un quartiere dal quale andammo via, a malincuore, perché il sindaco di Palermo di allora, quel famoso Ciancimino che mio fratello fece mettere alle sbarre trent'anni dopo, aveva deciso che quella zona andava abbattuta per costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di meglio. Un meglio che ripugna il liberty e gli splendidi palazzi dell’Ottocento che furono distrutti...

Il cosiddetto Sacco di Palermo...
Per l'appunto, sì. Giovanni ha vissuto quel quartiere fino al midollo, ha respirato quell’aria, e direi molto, ma molto più di me. Sa: allora le donne vivevano più riparate, appartate. Giovanni invece giocava in oratorio, frequentava la strada molto più di me. Perciò, aveva il polso di quella società...

Ma voi avevate già lasciato casa nel 1940, durante i bombardamenti alleati. Sfollate a Sferracavallo, una borgata marinara di Palermo e poi nel ‘43 a Corleone...

Sì, dai parenti di nostra madre...

Ecco, i piccoli Falcone, per ironia della sorte, si ritrovano nella cittadina che ha dato i natali a banditi e mafiosi che in questa storia torneranno e, direi, sciaguratamente: Navarra, Ligio, Provenzano, Riina, i fratelli Calogero, Bagarella, Ciancimino...

Io ero una bambina di sette anni, Giovanni quattro, Anna nove. Siamo stati a Corleone nei mesi caldi che seguirono allo sbarco degli americani a Palermo, dopo il famoso bombardamento del 9 maggio che doveva aprire la strada agli americani. Ricordo le camionette degli americani che entravano e lanciavano cioccolatini e caramelle...

Un ricordo molto comune...

Come dice?

Un ricordo molto comune in quella generazione... Insomma, tornate alla Kalsa e lì, come diceva, Giovanni frequenta il quartiere e se ne impregna, intus et in cute. Fa la spola tra la parrocchia di Santa Teresa e quella di San Francesco. Si appassiona al calcio, al ping pong. Ingaggia partitelle anche con Spataro, con Buscetta, con Borsellino...

Pensi che in occasione del trigesimo della morte di mio fratello, Paolo (Borsellino) mi ha fatta commuovere. Mi fa: Guarda, Maria, è quello il campetto dove giocavamo tutti a calcio! E per tutti intendeva anche alcuni futuri criminali.

Che bambino, che ragazzo era suo fratello?
Particolarmente intelligente. In casa studiava poco perché stava molto attento a scuola. Il suo curriculum scolastico era eccellente. Il suo professore di latino alle medie gli ha fatto tradurre Pinocchio in latino: Pinoculus.

Lo sa che se lo ritrovasse varrebbe più del manoscritto Voynich?

Eh già... Ma non riceveva poi tante lodi!  Mia madre aveva avuto un fratello morto giovanissimo in guerra e ne parlava spesso. Spronava Giovanni a fare sempre più e sempre meglio. In casa si lodavano più i miei sette che gli otto che i nove di Giovanni, perché a lui si chiedeva sempre di più.

Lei ha parlato di un ragazzo molto rigoroso, molto severo con se stesso...

Organizzava perfettamente il suo tempo. Una disciplina prussiana!

Con una grande passione per un libro il cui protagonista aveva suppergiù la sua età e che forse gli ha insegnato il valore del coraggio e del Bene: i Tre moschettieri...

Oh, lo amavamo tutti in famiglia: Papà ci portò a vedere i film. E sapesse quanto ci piacevano i famosi Beati Paoli. Il Giornale di Sicilia offriva le dispense in inserto e noi facevamo a turno a chi doveva leggerli per primo.

E poi uno degli incontri più importanti per la formazione mentale di suo fratello, un professore di storia e filosofia: Franco Salvo. Una mente che profumava di illuminismo...

Ahhh, era un professore dotato di immenso carisma. Era stato anche mio professore agli esami di quinto ginnasio. Fu l’artefice del cambiamento di mentalità di Giovanni. Un professore di impronta illuminista che seppe ispirare in Giovanni la passione per la ragione e gli fece perdere la fede, detto tra noi...

Come per i chewing-gum americani, direi che anche questa è una storia comune...

Eh be’...

E quando questo prodigioso Giovanni comincia ad appassionarsi al comunismo di Berlinguer in una famiglia in cui tutti votavano DC, cos’è capitato? Caporetto!

Noi qua in Sicilia vivevamo con la paura del comunismo mangia gatti...

Ah, per voi mangiavano i gatti non i bambini?

Cioè, cioè, scusi, mangia-bambini! (Ride di una risata gracchiante). Anche nelle famiglie della media borghesia palermitana il discorso era più o meno quello: ricordo che una volta chiesi a Giovanni: senti, ma tu che sei tanto amante della democrazia e se poi una volta arrivati al governo i comunisti ci tolgono la libertà? Che facciamo? E lui mi disse: e che facciamo; torniamo sulle montagne!

Cioè a battagliare come i partigiani, però stavolta contro i comunisti...
Sì, sì, battagliamo anche contro di loro, come lo si era fatto per i fascisti! Perciò, per lui valeva la pena tentare la strada profilata da Berlinguer.

Inutile ripercorrere la carriera universitaria di suo fratello. Basti dire che si è diplomato e laureato con lode. Che a ventisei anni era già pretore. Nel ‘67 si trasferisce a Trapani come sostituto procuratore e lì la prima amarezza: si celebra il processo contro don Mario Licari e i suoi adepti. Un processo, come al solito, spostato in altra sede per legitima suspicione (il “legittimo” sospetto che la corte fosse prevenuta) e poi naufragato... La mafia rimaneva impunita, ancora una volta.  Però lì suo fratello ha l’intuizione della sua vita....

Sì, l’esperienza professionale di Trapani comincia a creare le basi che poi si svilupperanno negli anni a venire. Vede, Giovanni era anche e soprattutto uno studioso, uno studioso instancabile, che sapeva recepire gli stimoli dalle indagini e seppe anche ricollegare le sue esperienze per creare un modello. Un modello di lotta alla mafia che sarà imitato in tutto il mondo.

Ed entriamo nel merito di questo modello. A suo fratello al liceo avevano insegnato che pecunia non olet, che i soldi non hanno odore. Invece...

Invece, Giovanni intuisce che i soldi puzzano eccome. Questo è in parole spicce il suo modello: seguire l’odore dei soldi. Intercettare i movimenti sospetti del danaro per scovare i criminali. Basti pensare all’importanza dell’indagine cosiddetta “pizza connection” su un grande traffico internazionale di droga gestito da Cosa Nostra, che non ci sarebbe stato se Giovanni non si fosse posto al centro di una forte cooperazione diretta con gli Stati Uniti e la Svizzera. Giovanni sapeva che la droga può non lasciare tracce, ma il danaro sì. Il danaro lo lascia.

Quando suo fratello ha cominciato a fare le pulci ai più pericolosi criminali di questo Paese, Lei o qualcun altro in famiglia, non si è sentito di dirgli: Giovanni, ma fermati! Giovanni, stai giocando con il fuoco! Giovanni, ma chi te lo fa fare! Le confesso che io nella mia piccineria a mio fratello lo avrei detto.

E avrebbe fatto male. Mai e poi mai avremmo potuto fare una cosa del genere. Siamo stati educati nella libertà di scelta. No, no, assolutamente. No! I nostri genitori ci hanno insegnato il valore della responsabilità e del dovere, a ciascuno il suo. Nessuno avrebbe tentato e poi Giovanni non avrebbe mai sopportato ingerenze! Mai e poi mai avrei caricato mio fratello di una responsabilità del suo lavoro anche nei confronti dei suoi familiari.

Professoressa, arriviamo al punto più importante di questa storia. Giovanni, il piccolo di casa, ormai era diventato il caposcuola di un innovativo metodo investigativo. Oltre ad intuire che il danaro ha via infinite come quelle della provvidenza e che si possono ripercorrere al fine di ricostruire il fatto criminoso, intuisce che la mafia non è un’accolita di bande, ma un organismo che somiglia ad uno Stato e che come lo Stato ha un vertice da cui si prendono le decisioni...

Esattamente. I magistrati, quindi, che indagavano e studiavano singole realtà mafiose andavano riuniti in una equipe, una squadra. Fu così che nacque il Pool Antimafia, creato e guidato da Antonino Caponnetto come efficacissima arma contro la Mafia. Grazie ai metodi innovativi di mio fratello e alla capacità dei suoi colleghi, il pool inaugurerà una stagione di sconfitte, di condanne durissime per la Mafia.

Il frutto più grande di questo Pool è il Maxiprocesso. Il più grande processo mai celebrato al mondo. 475 imputati, poi scesi a 460 nel corso del processo. Furono quasi tutti condannati, per un totale di più di duemila anni di carcere. Siccome nessun aula in Sicilia e forse al mondo avrebbe potuto contenere un processo di tal fatta sarà costruita un’aula a bella posta, vicino al carcere dell’Ucciardone, l’aula bunker, con un sistema di sicurezza concepito per resistere anche agli attacchi missilistici...

Durante il maxiprocesso veniva spesso a casa nostra, almeno due volte la settimana. Amava molto i miei figli. Lui figli non ne aveva avuti.

Se ne avesse avuti pensa che si sarebbe regolato nella stessa maniera?

Credo proprio di sì. Non penso che il fatto di essere padre lo avrebbe fatto desistere dal suo dovere, perché, come Le ho detto, il dovere era insito alla sua natura. Veniva a casa spesso in quel periodo e grazie ai nipoti aveva il polso della città, dei giovani. Chiedeva loro cosa facevano, come si divertivano, si faceva raccontare i fattacci di strada. Avrei voluto chiedergli tante cose, tante. Pensavo fosse suo diritto distrarsi, almeno in famiglia. Francesca diceva sempre che era il posto in cui andava più volentieri, casa mia.

Francesca è Francesca Morvillo...

Sì, la seconda moglie, che bisogna ricordare sempre perché è stata la donna, anche lei magistrato, che ha permesso in quegli anni a Giovanni di sopravvivere a ciò che gli accadeva intorno, pur non andando lei nella stessa macchina, perché non voleva la scorta e poi per fatalità quel giorno... Francesca fu un grande magistrato che capì non solo Giovanni, ma anche l’impresa che stava compiendo. 

Come interrogava i mafiosi suo fratello?

Una volta si trovò di fronte Pino U piddaru, che da noi vuol dire il conciatore di pelli. Giovanni, come faceva spesso, metteva a frutto la scuola della strada. Cominciò ad interrogarlo in dialetto. Al che l’interrogato capì fino a qual punto di confidenza sarebbe potuto arrivare col dialetto e disse: dottore, io mi chiamo Giuseppe Lo Francesco detto Il conciatore di pelli e da questo momento qui si parla italiano!

Suo fratello era molto criticato per il rapporto che riusciva ad instaurare coi collaboratori di giustizia, altrimenti detti pentiti. Volevano parlare con lui, esclusivamente con lui. Perché?

Perché Giovanni era convinto che chi aveva di fronte avesse una dignità e che meritasse rispetto in ogni caso. Anche se si trattava di un criminale di buona matricola. Lui li rispettava, ma non si pensi che si spingesse oltre. Un giorno Tommaso Buscetta mi confessò: Dicono che io sono stato un amico di Falcone. Magari! Tra noi c’era reciproco rispetto, ma il dottor Falcone rimaneva il magistrato al di là del tavolo. Il che vuol dire...

Che dovevano rimanere nei ranghi.

Assolutamente.

A proposito di dignità. Cosa avrebbe detto suo fratello della decisione della Cassazione di concedere a Riina gli arresti domiciliari per assicurargli una morte dignitosa?

Avrebbe detto che Totò Riina era in carcere al 41 bis non per un capriccio o per una cattiveria dello Stato democratico, che gli imponeva delle sevizie, ma perché un boss è in grado di comandare anche in carcere. Quindi, il 41 bis era necessario per isolarlo dai suoi. Avrebbe detto: Totò Riina, pur essendo gravemente malato, continua ad avere capacità intellettuali normali, quindi fuori dal carcere potrebbe dare ordini molto pericolosi per la società. D’altronde, la dignità di Riina può essere garantita all’interno della struttura giudiziaria, in ospedali a ciò addetti.

Borsellino ha dichiarato che suo fratello era molto allegro quando dopo i successi conseguiti alle dichiarazioni di Buscetta, si percepiva che la gente faceva il tifo per loro. Questo tifo però ad un certo punto viene meno...

Adesso le racconto una cosa. Un giorno mio fratello ha aperto il Giornale di Sicilia e si è trovato a leggere una lettera inviata da una signora palermitana che si lamentava del fatto che le sirene della scorta che riaccompagnava a casa mio fratello disturbavano il suo sonnellino pomeridiano. Giovanni avrebbe voluto, come chiunque cerca di fare il proprio dovere a costo della propria sicurezza, vedere nei suoi concittadini il riconoscimento dei propri sacrifici e non addirittura il rimprovero. È stata una cosa che gli è dispiaciuta a livello personale... Questa mancanza di affetto, di comprensione nei suoi confronti...

Lei ha dichiarato che i magistrati sono stati i peggiori nemici di suo fratello. Il procuratore generale, Pizzillo, si è sempre opposto alle indagini finanziarie di suo fratello perché, disse, rovinavano l'economia della Sicilia. Nel gennaio ’88, dopo il maxiprocesso, tutti si aspettavano che Falcone sarebbe diventato nuovo capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Invece al Consiglio superiore della Magistratura i voti passano da uno schieramento all’altro, si infrangono promesse. Il Consiglio nominerà Antonino Meli.

Mio fratello disse che il Consiglio superiore della Magistratura con quel voto lo aveva consegnato alla Mafia. Disse: perché anche i miei, cioè a dire i colleghi magistrati, non mi vogliono. Quel voto voleva dire il mancato riconoscimento del suo lavoro. Mio fratello ha cominciato a morire in quel gennaio dell’88. Mio fratello, però, ha sempre reagito con ironia, anzi non ha mai risposto direttamente. Io gli invidiavo questa capacità.

Però quando Borsellino da Marsala rilascia un’intervista in cui sostiene che a Palermo si stava cercando di distruggere il pool antimafia, suo fratello reagisce per la prima volta...

Reagì per difendere l’amico Paolo, per se stesso forse non lo avrebbe fatto. E in quella circostanza fece un gesto forte: decise di dimettersi. Scrisse una lettere di dimissioni durante una notte insonne che gli procurò molto dolore, ma poi fu l’intervento di Cossiga a impedire che Giovanni rinunciasse al suo proposito e rimanesse ancora un po’ a Palermo.

Nel giugno ’89 suo fratello è preso d’attacco dalle lettere del corvo, lettere anonime che lo accusano di comportamenti spregiudicati e immorali. E poi sempre in quel mese e in quell’anno presso gli scogli antistanti la villa che affittava per le vacanze all’Addaura viene ritrovata una borsa da sub con 58 candelotti di dinamite. Secondo la vulgata suo fratello aveva organizzato da solo l’attentato...

Per la promozione al ruolo di procuratore aggiunto, così dissero! Questa fu la cosa che più lo addolorò, ma poi i fatti dimostrarono il contrario. Gli restò quest’amarezza infinita nel comprendere che i tempi non erano favorevoli al suo lavoro. Che molte forze pressavano perché lui non restasse a lavorare a Palermo. L’azione di Giammanco contro di lui, la lettera del corvo lo spingono ad accettare l’invito di Martelli al Ministero della Giustizia sicuro di poter fare a Roma quello che non gli permettevano più di fare a Palermo...

E lo ha fatto: come un marinaio che ha sempre i venti contrari, ma sa bene dove andare. Lo ha fatto: la legge sui pentiti, il 41 bis, il sequestro dei beni sono tutte iniziative di suo fratello. Eppure, si disse che si era svenduto ai socialisti...

Questo è stato il dolore finale. Ricordo quando partecipò in tv a Samarcanda nel ’91, moltissimi ospiti lo attaccavano e il pubblico, come il popolo in quel cortile davanti al Gesù flagellato, spesso e volentieri applaudiva. Attaccarono il suo progetto di una Procura Nazionale Antimafia. Fu indetto uno sciopero nazionale dei magistrati, le procure locali si sentivano espropriate.

Di tutti i magistrati che hanno osteggiato suo fratello qualcuno ha avuto la civiltà e l’umiltà di fare ammenda?

Be’, in questo momento non ne ricordo nemmeno uno.

Professoressa, il 23 maggio del 1992...

La domanda che sta per farmi è quella che mi fa sempre più male. Quel giorno è talmente nebuloso nella mia mente... Sa, forse per un’esigenza umana, ho cercato di rimuovere... Ma la prima cosa che mi viene in mente è il volto di mio marito, che si chiamava pure Giovanni, che parla al telefono con la mia amica più cara ed io ricordo un viso stravolto. Ed io immediatamente, non ho pensato ad altro... È successo qualcosa a Giovanni?, gli ho chiesto. Era la mia amica che ci chiedeva di accendere il televisore...

E Lei lo ha acceso?

No, in quel momento ho avuto l’impeto di andare in ospedale per dargli aiuto. Ho chiamato la polizia, ho chiesto dove lo avessero portato dicendo di essere la sorella e loro mi hanno risposto: E a noi chi ce lo dice che è davvero la sorella? Allora io sono scappata in macchina con mio marito e poi... lungo la strada ho incontrato una macchina della polizia e mi sono fatta scortare fino al civico... Ricordo che sulla scalinata ... (Maria Falcone indugia per circa dieci secondi, ha la voce impastata e rotta dalla commozione) Mi è venuto incontro Paolo (Borsellino), mi ha abbracciata... Io non pensavo che Giovanni potesse morire... Non pensavo che fosse morto... Pensavo fosse ferito e che potevamo aiutarlo, salvarlo... E invece Paolo mi disse: è spirato tra le mie braccia dieci minuti fa. E poi... E poi, e poi non ricordo più niente.

Allora il ricordo più bello che ha di suo fratello?

I ricordi più belli sono i ricordi della gioventù, i ricordi di Mondello, del mare, dei bagni...E poi quelli più recenti, le nostre cene, i nostri pranzi, i nostri natali, le nostre pasque...

Lui ha battezzato una delle sue figlie, vero?

Sì, sì, ha battezzato la mia seconda figlia, che si chiama Luisa come la nostra mamma. Ha sempre amato sia i miei figli che quelli di mia sorella come fossero suoi. Ma sempre alla sua maniera molto riservata.

È vero che aveva in barba stare coi grandi, stava meglio coi ragazzi?

Sì, sì, sa che noi al sud nelle famiglie numerose facciamo un tavolo per i ragazzi ed uno per gli adulti. Lui si sedeva sempre al tavolo dei ragazzi.

Mi colpisce molto che Lei non sia mai stata rancorosa, adirata nei confronti dello Stato... e ne avrebbe donde! Non ha mai accreditato il binomio Stato-Mafia come molti fanno superficialmente...

Lo Stato siamo noi. Non possiamo accusarci tutti di essere conniventi o mafiosi... Io ho un concetto dello Stato che ci è stato inculcato... Noi siamo cresciuti con un motto in famiglia: quando la Patria chiama bisogna andare... Giovanni è stato chiamato ed è andato!

Prega mai per suo fratello?

(Maria Falcone incespica, come se inghiottisse un magone per alcuni secondi) Adesso mi fa piangere, Rosano! Io ho un modo particolare di pregare... Io... (si attarda ancora alcuni secondi) non dico molti rosari ma sono in contatto diretto... Io... Tutta la mia giornata è con me... È come se avessi un interlocutore al di sopra... Eh, mi stai facendo piangere... Scusa se passo al tu... Ma...

Mai ricevuto privilegio più grande. E... Se mi commuovo anch’io non va bene... Continui a pregare anche per noi, professoressa, per tutti noi! Per un mondo come lo sognava lui, meno rotondo e un po’ più quadrato. 





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