LIBRI Napoleone trionfatore e prigioniero
Nicola Ricciardelli svela luci e ombre di un grande dello scettro
di Vanna Morra
Quello che c’è oltre una corona da imperatore. Luci e ombre di un grande dello scettro che finì da miserabile. E poi gli intrighi, i retroscena di palazzo, i misteri che ne avvolgono la morte, la codardia da relegato tra le nebbie di Sant’Elena. Le pagine di “Napoleone trionfatore e prigioniero. Altezze e bassezze di un imperatore”, scritto da Nicola Ricciardelli ed edito da Iuppiter Edizioni, tratteggiano un Napoleone arso da “cupidità ardentissima di dominio”, sommo stratega, riformista, ma anche ladro d’arte, megalomane e, sul finire, esule patetico. Sono appunto quelle “altezze e bassezze” che ne fanno uno dei più carismatici e controversi personaggi partoriti dalla storia.
L’opera, dal taglio divulgativo, ha il merito di non limitarsi ad accompagnare il lettore lungo le tappe di una carriera militare e politica senza pari, ma di frugare nel passato scovando curiosità, dissotterrando quella aneddotica anche poco “nobile” che sta poco più in là dell’ovvia carriera di successi. Un excursus sulla “dietrologia” napoleonica che, vedendo in Luciano Sterpellone uno dei suoi più stimati fautori, si inserisce con la chiarezza della narrazione in un territorio battuto da grandi storici e saggisti. Non stupisce, in effetti, che la letteratura napoleonica sia quanto mai inflazionata. Il dominatore di Austerlitz e Jena ha ispirato fiumi di inchiostro, accaparrandosi gli osanna di contemporanei e posteri: poeti, scrittori, compositori, che ne hanno talvolta ingigantito i meriti, altre marcato gli eccessi.
Ma chi fu veramente Napoleone Bonaparte? Come accadde che un còrso spuntato dal nulla riuscisse, in tempi lampo e lasciando a bocca aperta l’Europa, a posarsi sul capo (lui, non il papa) la corona di imperatore dei francesi? Dal racconto di Ricciardelli, chirurgo di origini irpine, specializzato in chirurgia generale, cardiologia e angiologia e da sempre patito di corsi e ricorsi storici, apprendiamo di un Napoleone esteta incallito, che per assecondare la sua sete di ricchezza riservava in quasi ogni campagna militare posti d’onore nel suo seguito a studiosi e archeologi, incaricati di rintracciare e valutare le perle d’arte nascoste in terra straniera. Era la sottile politica di ogni conquista: si spogliavano i vinti dell’identità culturale e, con conclamate razzie, si andava ad arricchire la collezione del Louvre.
Emerge anche il chiaroscuro di un “malato” di grandezza, architetto di una oculata propaganda personale che toccò il culmine quando si fece dipingere da Jacques-Louis David su un cavallo bianco in impennata mentre attraversava il Gran San Bernardo, mistificando la realtà dei fatti che lo vide invece in sella ad un meno glorioso mulo. Le riforme illuminate (dal “Codice napoleonico” alla legislazione sui cimiteri sancita dall’editto di Saint Cloud), la scarsa propensione alla virilità, le scappatelle delle due mogli, le grane in fatto di salute, l’imbarazzante enigma di Waterloo, il genio strategico e gli errori militari, la sottomissione agli inglesi nel tramonto dell’epopea: tutto fa del libro un’originale testimonianza dell’“uom fatale”, come lo definì Manzoni, e di una vita maestosa condotta sotto il segno della guerra. Ed è proprio in quel melting pot di vicissitudini e interpretazioni che si scioglie, senza risolversi, l’interrogativo cardine de “Il cinque maggio”: «Fu vera gloria?»