Due euro l'ora, Sud e lavoro al cinema

Intervista al regista Andrea D'Ambrosio, al suo primo lungometraggio

    di Maria Neve Iervolino

«Trae spunto da una tragedia in cui due operaie, di cui una minorenne, morirono in un materassificio abusivo lavorando a due euro l’ora. Erano tutte operaie». Un fatto di cronaca per raccontare l’abuso e la schiavitù del lavoro in nero in Italia, una realtà sommersa che il regista Andrea D’ambrosio al suo primo lungometraggio porta in superficie.

In "Due euro l’ora" ruolo importante è dato dalle donne e dal Sud: «Penso alle straordinarie donne della Calabria, della Lucania, donne anziane adesso che hanno sopportato una vita intera prima le emigrazioni degli uomini verso il Nord Europa e poi la solitudine e ora in molti casi sono loro che campano ancora i figli», racconta D’Ambrosio. Una visione che oltre a scuotere le coscienze gli ha permesso di vincere l’ultima edizione del Bari Film Festival.

Precarietà, lavoro sottopagato, immigrazione: nel suo ultimo film ha scelto di trattare tematiche attuali e difficili. Perché?

«Il cinema secondo me ha una funzione catartica e sociale. È interessante raccontare per immagini i guasti della società. Raccontare quello che non va, e quello che molto spesso i media oscurano o decidono di non raccontare. Una storia racchiusa in un film può arrivare direttamente allo spettatore e farci capire in che paese e in che società stiamo vivendo. Un film è sempre guardare dentro di noi, per capire quello che accade intorno a noi. I film del neorealismo italiano hanno fatto conoscere agli italiani e al mondo che tipo di Italia stavano costruendo. Tra macerie, distruzione, speranze e utopia. Oggi il cinema ha ancora questa funzione vitale».

In "Due euro l'ora" il punto di vista femminile è molto rilevante. Come mai questa scelta?

«Le donne nel cinema sono state spesso raccontate in diversi modi. "Due euro l’ora" è una storia di donne. Credo che nel Sud Italia, ma non solo, ci sia ancora un tentativo di marginalizzare la donna, di non darle un ruolo preminente nella società. Credo invece che le donne siano molto più avanti di noi, e i loro sentimenti e le loro speranze sono ancora una colonna portante soprattutto nel Meridione. Penso alle straordinarie donne della Calabria, della Lucania, donne anziane adesso che hanno sopportato una vita intera prima le emigrazioni degli uomini verso il Nord Europa e poi la solitudine e ora in molti casi sono loro che campano ancora i figli. E ancora oggi come un tempo subiscono pregiudizi, soprusi e tentativi di prevaricazione. La cronaca ci sbatte in faccia ogni giorno storie del genere».

Qual è messaggio veicolato dal film?

«Provare a capire a che punto siamo. Il mio non è un film sul lavoro, ma è innanzitutto una storia d’amore, un rapporto difficile tra un padre e una figlia e un quadro di un sud che stenta a crescere ma che ci da ancora tante speranze. Vorrei porre degli interrogativi, più che dare risposte. L’arte in fondo pone sempre dei quesiti non da mai risposte».

Quali sfide ha incontrato nel passaggio dal cortometraggio a questo primo film?

«Un cortometraggio è un lavoro a tempo, nel senso che dura poco, è molto variabile, sei più libero di inventare anche sul set, di improvvisare. Un film ha dei ritmi serrati che devi rispettare, con una troupe che ti osserva e ti chiede dove vuoi andare. Il corto è come fare un documentario sei solo con te stesso. Anche se anche li hai una troupe e degli attori. Ma è molto più veloce la cosa. Io mi sono divertito molto a fare "I frutti del lavoro", un'opera che amo molto e il rapporto con Decaro è stato straordinario».

Cinematograficamente quali sono i suoi punti di riferimento?

«I punti di riferimento sono tanti: innanzitutto i miei maestri, quelli che mi hanno insegnato regia: Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Ettore Scola, Ugo Pirro ma poi i tanti film che ho visto nel corso della mia vita. I grandi autori italiani e americani. C’è un film che amo su tutti "Mery per sempre" di Marco Risi. Credo che lì sia nato il mio amore per il cinema».

Qual è secondo Lei il film che manca al Sud oggi?

«Oggi al Sud manca la forza di cambiare, e quindi manca un film che abbia il coraggio di raccontare il male e anche il bene. Si seguono dei filoni, tipo "Gomorra" e si fanno venti film su quella scia. Oggi più che un film sulla camorra a Scampia, farei un film su un impiegato delle poste che vive a Scampia. Oggi non si racconta la normalità. Anche se a volte la realtà supera la finzione». 





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