Perche' vedere Black Phone

Suspence, trama incerta e il Rapace, interpretato da Ethan Hawke, intriga ma non convince

    di Mario Vittorio D'Aquino

Black Phone è l’attesissimo nuovo film targato Universal Pictures di Scott Derrickson, il regista di Doctor Strange, ispirato dal romanzo omonimo di Joe Hill, pseudonimo del figlio di Stephen King. Derrickson è accompagnato da tutto il team che nel 2012 ha dato vita a Sinister, uno dei prodotti più “da brivido” del genere thriller. Con queste premesse, la trama non esita ad addentrarsi nella vita del giovanissimo Finney Shaw (Mason Thames) e sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) – siamo a Denver nel 1978 – orfani di madre e con un padre alcolizzato e violento impersonato da un Jeremy Davies ispiratissimo. Baciata dai misteriosi poteri che aveva anche la madre di prevedere in sogno eventi che sarebbero accaduti in futuro, Gwen subisce il peso maggiore degli abusi mentre Finney non può far altro che guardare da lontano e raramente tenta una reazione. E lo stesso atteggiamento passivo ce l’ha a scuola, essendo vittima di bulli.

Molto presto il panico si avventa nella città e si ha così un colpo al racconto che spezza l’impasse iniziale. Un’oscura personalità si aggira tra le strade di Denver facendo sparire dei bambini. E’ il Rapace (Ethan Hawke) presentato con atteggiamenti macabri e squilibrati: infatti assomiglia tanto al famigerato clown It, creatura narrativa di Stephen King adattata a film da Andy Muschietti, però con l’irriverenza beffarda di un Cappellaio Matto. E non sfugge a questi sequestri anche Finney, così come previsto in sogno dalla sorella. Nascosto in una cantina, la trama inizia a qui a perdere un po’ la sua conformazione moderna di thriller addentrandosi ad un classico horror sovrannaturale. Il “black phone”, in italiano “telefono nero”, sarà appunto l’oggetto cardine che permetterà al piccolo protagonista di escogitare diversi piani d’uscita “connettendosi” con le altri giovani vittime che sciaguratamente non hanno mai più visto la luce del giorno ma che aiuteranno Finney a districarsi nel buio e sporco seminterrato.

Con un meccanismo da escape room, il girato sfrutta la tensione tipica di questo genere cinematografico, puntando molto sull’ansia di scoprire cosa succede l’attimo sempre successivo con un dualismo infinito tra la marionetta e il burattinaio. Una tensione che, in effetti, incolla gli occhi allo schermo per tutta la durata del film. Puntuali ma mai banali i diversi jumpscare che aumentano la suspence, a discapito, talvolta, di una coerenza narrativa. Invece dalla figura così ben presentata come quella del misterioso Rapace si attende un grande passo in più che non arriva mai. Quello che poteva essere davvero il personaggio più interessante non ha quasi mai un ruolo preponderante, se non in rarissimi momenti in cui non assistiamo alla storia attraverso gli occhi di Finney. Del villain si sa davvero poco o nulla: chi è? Come si chiama? Perché rapisce i giovani maschi della città? Agisce così perché ha subito abusi in giovane età? La sceneggiatura lascia di tanto in tanto qualche indizio impercettibile e mai risolutivo. Il film, nonostante la trama altalenante, riesce comunque ad intrattenere fino alla fine, figlio di una regia ed equipe esperta del genere, con una fotografia scura e sporca, proprio come spesso l’abbiamo vista in Sinister e L’esorcismo di Emily Rose.





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