Tropico della spigola, scrigno del Sud

Max De Francesco nel suo libro presenta la galleria dei suoi eroi noti e ignoti

    di Enza Silvestrini

Esistono luoghi dove l’anima è a casa. Per trovarli occorre orientarsi attraverso la torrida sicurezza del tropico, illuminati dai raggi del sole allo zenit, e seguendo il movimento della spigola. Simile a una fortezza volante, una grossa spigola passa sotto di noi immersi nel gran mare della vita. Sembrerebbe subito alla portata del nostro fucile subacqueo che vuole stanarla, catturarla, farla sua completamente, ma la preda lucente sfugge. Per potere arpionare la sua carne vibrante, guardare il suo splendore argenteo bisogna seguirla fin nel suo sparire.

Già nel titolo - Tropico della spigola (Iuppiter Edizioni) - Max De Francesco fornisce al lettore, che si avventura nel suo scrigno di parole, una direzione necessaria a non perdersi. L’approdo è il Sud. Contaminato da troppi stereotipi, discorsi vuoti, dimenticanze, il Sud sfuggirebbe continuamente alla nostra vista se non ci fossero il tropico e la spigola a dirigerci, se non ci fosse la letteratura (la spigola è un richiamo e un omaggio a Ferito a morte di Raffaele La Capria), se non ci fosse un ostinato rigore dell’autore nella ricostruzione storica e culturale di luoghi reali e sociali che sono stati frettolosamente liquidati come folklore o anacronismi da superare. È un rigore appassionato, mai sterilmente puntiglioso, che nasce dall’amore per la sua terra e dalla volontà di seguire, proprio come il personaggio del romanzo di La Capria, la preda fin dentro le faglie della roccia in cui si nasconde, fin dentro quella miriade di bollicine d’acqua e quella nuvola di sabbia che potrebbero perderla per sempre. La preda è la realtà di un Sud disperso. Max De Francesco aguzza la sua e la nostra vista. Così proiettandosi oltre la gabbia dei generi, il libro raccoglie articoli, memorie, racconti, apologhi, ritratti e riflessioni di un autore che alla passione del giornalismo associa quello della poesia, della scrittura, dell’editoria e della cinematografia. Il viaggio si svolge in quattro tappe che costituiscono le parti dell’antologia.

Nella prima, Napoli artificiale, la città è sospesa all’incrocio delle sue epoche perché è il tempo la vera anima di Napoli. Un tempo che non si pone in successione ordinata, né si contorce nella circolarità del ritorno, ma si ammassa ingarbugliandosi sempre di più fino all’immobilità. Una matassa spettinata di passato, presente e futuro in cui tutto può convivere con tutto. Per questo, all’angolo di via Chiaia si può incontrare Antonio ’o gioiello, frammento di un passato antico che ritorna presente, il passato mitico della posteggia e dei mandolini. Napoli è, insieme, la città da cui fuggire o in cui restare cercando faticosamente quei piccoli spazi per viverla diversamente. Spazi angusti dove far penetrare l’aria affinché respirino e crescano. Napoli con i suoi balconi, sospesi tra il pubblico e il privato; con la sua mentalità, parola odiosa che ognuno riempie come vuole; con i suoi tracchi, che prima di diventare un codice dei clan, sono stati una partitura di fuochi per esprimere una sinfonia emotiva che va dal sussurro alla protesta; con i suoi presepi, esercizi di pazienza e resistenza che ci insegnano come la fine e l’inizio sono importanti in tutte le cose; con i suoi maggio odorosi e i suoi sfratti che si tenevano, appunto, ‘o quatto ‘e maggio. Napoli perduta (come la festa di Piedigrotta che della città era espressione potente) e ritrovata nei suoi piccoli eroi, in bilico sui suoi forse, baraccone delle meraviglie, città dell’artificio barocco che mescola stupore e finzione, magnificenza e povertà, esagerazione e contraddizione, la bellezza della vita e il germe della morte. Lo sguardo diventa straniante nella Lettera di un proiettile vagante o nelle interviste impossibili a Frank la blatta, rappresentante politico delle blatte ammassate nelle fogne della città, e ad Angelino, eucalipto bicentenario, affogato nei veleni dei cantieri della villa comunale. Eppure è proprio attraverso l’incalcolabile traiettoria del proiettile, gli odori di fogna del mondo delle blatte, i sussurri frondosi dell’eucalipto, che le miserie della politica e l’immobilismo della società civile appaiono in tutta la loro evidenza.

Nella seconda parte, Sud river, la scrittura attraversa un Sud che sbiadisce. Fermo al 23 novembre del 1980, quando la terra si spalancò per tremila innocenti, il Sud sembra vivere solo d’estate, nei discorsi da bar dei politici di turno che hanno in realtà cancellato la questione meridionale. Il Sud si estingue nell’esodo dei ragazzi in cerca di futuro e persino in un giro d’Italia che lo esclude (più correttamente il giro d’Ita con la parola Italia tagliata in due). Il suo spirito resta ancorato agli odori dei boschi cilentani, agli occhi di quei suoi sparuti guerrieri che, spesso nell’ombra, continuano tenacemente a fabbricare idee. Tra essi Massimo Troisi è il filosofo luminoso della ciclosofia, neologismo ricavato da un’attenta analisi cinematografica. De Francesco ritrova in Troisi l’eroe della lentezza che si condensa nell’immagine di una bicicletta sgangherata, presente dall’esordio di Ricomincio da tre all’epilogo di Il postino.

La stessa lentezza dovrebbe governare i discorsi pubblici, la scrittura giornalistica ed espressiva poiché è l’unico antidoto alla contrazione del pensiero, all’immiserimento della lingua che portano inesorabili a quel macello linguistico fatto di appunto, fondamentalmente, praticamente, detto questo. In Tipi e intercalari le ossessioni linguistiche, la bruttezza di un linguaggio svuotato di senso, dell’estetica dei suoni, della forza della varietà, rimbomba nelle figure dello scrittore di coccodrilli (gli articoli commemorativi già confezionati), del lostwriter e del portacroce che mettono la loro penna e la loro abilità al servizio dei potenti, degli scrittori mancati, dei giornali improvvisati. È il segno di una degradazione linguistica che diventa etica e politica. De Francesco l’affronta con lucida ironia. E da questa degradazione, che ha portato il nostro viaggio verso una dimensione più ampia, il salto verso il finale Ultimo cartaceo si compie. Uno sguardo definitivo, attraverso un Occhio di carta (titolo dell’ultimo brano), su un futuro distopico che si avvicina inquieto.





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