La legge di Ramos

Il difensore goleador vince la Champions

    di Max De Francesco

Chi ha vissuto la finale Champions tra Real e Atletico Madrid ha capito, se ce ne fosse ancora bisogno, che il gioco del calcio non è sempre un gioco di squadra. Si vince insieme, si corre insieme, si occupano gli spazi con movimenti studiati fino allo spasimo in allenamento, si seguono le indicazioni frementi del mister, si difende con trincee umane alla Mourinho o con linee spartane alla Simeone, si attacca con gazzelle sulle fasce o si sfonda per vie centrali con “dai e vai” strategici o lucenti geometrie messe su erba da un Modric o da un Pirlo. Ma si vince, o si perde, anche “non insieme”, perché un giocatore, nell’attimo decisivo ed estremo, saluta gli altri compagni e traccia il percorso per l’Olimpo o la via per l'Inferno.

Chi ha visto la finale Champions del 24 maggio 2014 sa che la partita, prima del 93° minuto la stava perdendo non il Real ma il suo portiere Casillas, occhi hollywoodiani e 33 anni sui guantoni, complice indiscusso del gol di Godin per un dubbio in area di rigore, manifestatosi in un’uscita da terza categoria e in un tentativo goffo di rimediare all’avventata decisione con un balzo verso una palla già in rete. Bene, fino al 93° minuto “la decima” coppa per i merengues sarebbe rimasta “nona” per colpa di un atleta stellato che fino a quel momento aveva collezionato una papera e zero parate. Con quegli occhi da divo, mai impegnato dallo spuntato attacco dell’Atletico, privo dopo 9 minuti di match della dinamite Costa, Casillas ha guardato il tempo più della sua porta, le lancette più dei pali, sperando di uscire dagli Inferi, con un gol dei compagni di qualsiasi fattura, di culo o di liscio, di scatto o di rimpallo.

Casillas non sapeva ancora che la provvidenza giocava davanti a lui e s’era incarnata in un difensore che, nel minuto della disperazione, mentre il volto di Ancellotti non aveva più muscoli ma rassegnati colori, s’è arrampicato in cielo, ha colpito la palla con la classica delle incornate, infilando il perticone Courtois. Non si vince insieme se non c’è chi lascia il gruppo e sfodera l’idea personale. La filosofia del pallone, nel suo libro degli schemi e delle visioni, prevede che il concetto di squadra venga superato dall’intuizione dell’individuo. Soprattutto nelle partite secche dove non v’è ritorno per rimediare e la spunta quasi sempre chi si distrae di meno e continua a correre anche dopo il fischio finale.

Il Real ha vinto “la decima” col pareggio di Sergio Ramos, classe ’86, pluridecorato top gun spagnolo, piglio spavaldo e faccia quadrata che ricorda quella di un giovanissimo Val Kilmer. Il resto della partita, sconfinata in supplementari senza storia con le teste dell’Atletico più molli delle gambe, è stato il prolungamento di un’agonia di un toro colpito a morte in quell’istante in cui già avvertiva l’odore magico della vittoria. Bale, Marcelo e Ronaldo sono stati i toreri secondari di quella bellissima belva allevata da un furioso el Cholo. In una Lisbona madrileña, nell’arena di uno stadio gemellato e appassionato, chi ha vissuto il derby Champions si è reso conto che Sergio Ramos, già determinante in semifinale con gli invincibili del Bayern grazie a una doppietta poderosa, non giocava in campo ma dominava come se fosse stato designato, prima della sfida, a ricoprire il ruolo di semidio. Con Diego Costa in forma forse non sarebbe andata a finire così; con un recupero meno lungo forse l’Atletico avrebbe trionfato. Ma i “forse” non cambiano gli eventi. Le finali di calcio insegnano quale legge spesso governa gli uomini e la storia: lo stacco del singolo determina il destino di tanti.





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