Blade runner 2049, il sequel perfetto

Il volto di un'America spietata e contemporanea nel film di Denis Villeneuve

    di Antonio Di Dio

Ne ho viste cose che voi umani non potete neanche immaginare.

Non potevamo che aprire questo articolo su “Blade Runner 2049” del regista Denis Villeneuve con la famosa frase pronunciata dall’androide Roy Batty (Rugher Hauer) in quel primo “Blade Runner” del 1982 diretto da Ridley Scott, e liberamente ispirato al romanzo “Il cacciatore di Androidi” del genio visionario e distopico di Philip K. Dick. Frase diventata negli anni manifesto di quella che sarà poi la generazione vissuta a cavallo tra gli anni '80-'90, nel pieno della rivoluzione digitale, che cambiò le sorti della nostra società e in particolare del cinema classico.

Il nuovo film di Villeneuve, sequel della vecchia pellicola di Scott, riprende appieno la trama narrativa del primo, là dove ci avevano lasciato i nostri due protagonisti: il cacciatore di androidi Deckard, interpretato da un giovane Harrison Ford, e l’androide Rachel (Sean Young). Ci ritroviamo catapultati esattamente a 30 anni di distanza, in una Los Angeles modernizzata e cupa, caotica, estraniante e cyborghiana, dove macchine futuristiche e quel sano tocco di post-apolittico reincarano la dose di apparente calma piatta come se il tutto si fosse già compiuto. In breve, il film ripercorre le vicissitudini dell’agente K interpretato dall’attore Ryan Gosling, che si troverà suo malgrado sulle tracce di un bambino che potrebbe cambiare le sorti del nuovo mondo. Incaricato di trovarlo e ucciderlo dal dipartimento di Polizia di L.A., cadrà vittima di un’illusione che lo porterà a prendere decisioni inaspettate, e ad un incontro con un passato che nel presente sfogherà tutto il suo stupore e il suo miracolo.

Il film, dal tocco eccezionale e dalla fotografia a dir poco fantastica, è il sequel perfetto di quel film che rappresentò una vera rivoluzione negli anni '80, per tematiche di accusa verso un’America vista come terra di violenza e di schiavitù, di oppressione e falsa apparenza, un chiaro manifesto di come il sogno americano fosse rimasto intrappolato nel suo finto perbenismo, dove si celava in realtà controllo spietato da parte delle “elite dominanti”, temi cari a Dick che probabilmente risentì nella stesura del romanzo (del 1962) della caccia alle streghe (comunisti) perpetuata in America durante il clima di tensione nucleare degli anni che vanno dai '50 ai '70, e sull’onda di importanti pellicole del dopoguerra come “L’ultima spiaggia” di Stanley Kramer del '55, e “L’invasione degli ultracorpi” di Don Siegel del '56 solo per citarne alcuni, quest’ultimo anch’esso tratto dal romano di fantascienza dall’omonimo titolo di Jack Finney del '55.

"Blade Runner 2049" è l’America contemporanea, la minaccia del diverso da abbattere. Un omaggio alle visioni dei grandi del passato, al cinema che piace e che strizza l’occhio al sacro e al profano, un film da vedere, da gustare in ogni singola inquadratura perché ci sembrerà che in fondo da quel 1982 nulla sia cambiato. Villeneuve fa un piccolo miracolo, quello di portare lo spettatore indietro nel tempo, in cui Ridley Scott dipinse il passato, il presente e il futuro di un'America spietata.





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