La divisa alle ortiche

Riflessioni su nascita, vita ed evoluzione delle uniformi

    di Umberto Franzese

Ci fu un tempo, non troppo lontano, in cui tutti indossavano un’uniforme. Un’uniforme nera di un nero netto, marcato. La indossava mio padre e pure mio nonno. I miei zii paterni e materni non erano da meno: tutti in nero il sabato per le grandi adunate. Poi, con la caduta del Grande Feticcio, e con l’arrivo degli occupanti, le uniformi, le divise, come d’incanto, sparirono. Tutti furono più liberi. Liberi di vestire di altri colori. Non più una sola grande intruppata, ma due fazioni divise da un solco profondo: i Bianchi e i Rossi. Da allora altre uniformi, altre divise buttate alle ortiche.

La divisa non più come segno di riconoscimento, di distinzione, di riferimento, ma come un peso, un marchio di cui liberarsi. Si può capire di divise smesse perché cadute in disuso per il cambiar del vento, ma tutte le altre di cui non se ne vedono più in giro? Tra le prime a farne a meno furono le care semplici maestrine della scuola elementare. Forse perché il nero del loro grembiule era il colore della tetraggine o forse perché richiamava alla mente un dovere tutto da compiere. Dal nero al grigio il passo è breve. Grigio era il colore della divisa dei tramvieri. Ancora un colore scuro e incolore come il loro macchinoso lavoro. C’era poi il blu delle tute dei fontanieri, dei gassisti, degli operai dell’Ilva, di quelli della SME, della Peroni, del Silurificio. Il blu delle sigaraie del Tabacchificio. Il blu dei netturbini, delle merciaie, delle sartine, del falegname, del fabbro.

I ferrovieri avevano la divisa color antracite, una zimarra antracite quella dei cocchieri. Di colore scuro, unicamente per allontanare lo sporco, vestiva il portiere, il vinaio, il terrasantiere.

La divisa, l’uniforme, serviva a identificare, ciascun lavoratore, a creare responsabilità. Una divisa per lavorare, per nobilitare. Nessun lavoro è vergogna, star senza far nulla è vergognoso. E meno che meno vergognoso è indossare una qualsiasi uniforme. Non è vergognoso infilare quella bianca dei cuochi, dei farmacisti, degli infermieri, dei camerieri. Ogni lavoro ha la divisa che si merita. Ogni lavoro è tanto più utile quanto più serve alla comunità. E dal tipo di lavoro che si svolge viene mutuata la foggia, il taglio, la misura, il colore. L’uniforme non è un capriccio, un lusso, una ricercatezza, è un’esigenza. E chi ha cura della propria persona e rispetto per il lavoro che svolge, si veste con decenza. Indossa la tuta o il grembiule, il camice o la palandrana. Assume i panni dell’operaio, dell’artigiano, di colui che svolge un mestiere o una professione. La divisa non appiattisce ma qualifica, non ridimensiona ma conferma. Ed oggi chi ambisce a portare la divisa?

Fatta eccezione per il vigile urbano, il carabiniere, il pompiere, il finanziere, la guardia giurata, non c’è altri che tiene a indossarla. Qualche eccezione. In tempi di pari opportunità, sono le donne che ardentemente tendono verso l’uniforme, per prima quella militare. E una conferma viene anche dalle donne magistrato, dalle donne poliziotto e dalle spose. Un abito a cui le giovani promesse non rinunciano è quello da sposa. Bianco, il più bianco che ci sia. Il bianco della castità, della verginità, con rispetto parlando. L’apparenza, è cosa risaputa, conta più dell’essere. L’aspetto, l’immagine dell’uomo moderno è piuttosto sciatta. La classe, lo stile non costituiscono raffinatezza ma grossolanità, non signorilità ma trascuratezza. Non conta l’abbigliamento secondo l’età, il buon gusto, l’armonia dei colori. Camicia aperta su un petto villoso o tatuato. Le scarpe sull’abito dell’uomo sono l’elemento più rozzo, più plebeo, più sconcio e se si aggiunge che fra gli accessori la cravatta non è più componente essenziale di ricercatezza, la trasandatezza è assicurata. Non c’è più limite al decoro, alla decenza. In ufficio, a scuola, in banca, in un negozio di lusso, nella redazione di un giornale, non più giacca e cravatta. Conta l’immagine disinvolta, trasandata, sportiva, senza troppe  formalità. L’abito, abolita la divisa, riflette non più appartenenza, ma ribellione, non più identità ma sfrontatezza.





Back to Top