Economia politica e politica economica
Considerazioni sul "governo della casa" nostrano
di Maria Regina De Luca
A volte basterebbe una ricerca etimologica per risolvere certi enigmi. Prendiamo la parola “economia” della quale si usa e si abusa quasi sempre in senso allarmistico anche se l’economia ha mille volti e, come trasformista, vincerebbe la gara con Fregoli. Essa sa essere reale e virtuale, monetaria e finanziaria, “in crisi” ma poi “si riassesta”, internazionale ma sotto ben distinte bandiere e precisamente “capitalistica” per la mitteleuropa, da “secondo mondo” per l’Europa mediterranea, da “terzo mondo” per coste e terre collocate verso il basso, detto anche Sud, del mondo. Sa essere anche da quarto mondo e via dicendo, ma fermiamoci qui perché la nostra trasformista sa anche passare dal letargo alla ripresa per poi languire, fermarsi e arretrare e riprendersi: sa essere una, nessuna e centomila, ma per sopravvivere a questi violenti batticuiori ha bisogno di cure. Dall’etimo apprendiamo che significa “regola, amministrazione, governo della casa”.
Se la casa è la polis, l’economia è “politica”. Se chi dovrebbe curare la casa-polis decide di ignorarla, essa comincia il suo gioco trasformistico nel senso deteriore, trascinando con sé la casa-polis e le sorti presenti e future del silente e consenziente popolo sovrano. Perché solo di silenzio-assenso si può parlare quando professori di economia di bocconiana matrice, ministri e ministresse con lauree e master specialistici e relativo presidente, sia pure casuale, tutti ben ferrati nell’arte della conversazione politico-cistercense riescono, di comune accordo, a sfiorare il terreno minato dell’economia dello Stato senza che ne risuoni l’allarme con mani abili come quelle scaltrite apposta per infilarsi nell’abito a campanelli della vittima. Nel nostro Paese, dove le imposte gravano sulla popolazione con un arbitrio compatibile solo con una dittatura, un’imposta patrimoniale grava, e pesantemente, su beni immobili che spesso non fruttano reddito e che hanno il torto di essere "seconde case", come se fossero i figli illegittimi un tempo esclusi dal diritto di successione. Le “seconde case” sono frutto di lavoro, di capacità, di posizioni patrimoniali maturatesi nei decenni e a volte nei secoli, o anche di sacrifici e risparmi, oppure di momenti di grande ripresa economia generale dovute a amministrazioni sagaci. La patrimoniale su di esse è ingiusta come quella sulle prime case, poiché erode il patrimonio in quanto non viene pagata col reddito (che queste case spessissimo non fruttano) e un’imposta patrimoniale è ammessa dalla scienza delle finanze soltanto in casi di emergenza e per breve tempo. Per quanto riguarda poi le norme sul lavoro, siamo all’elisir della buffoneria. Un paese con il quaranta per cento dei giovani disoccupati e il resto in cerca di paesi altri dove formarsi e lavorare tiene a lavoro gli anziani fino a settant’anni. A parte l’aspetto "sociale" della beffa, lo stesso bocconiano governo non calcola che le pensioni di quanti hanno avuto la fortuna di averle sono spese all’estero per il mantenimento dei giovani emigranti, e che i giovani che restano e che vivono sulle spalle dei genitori pensionati, sono dei non consumatori.
L’economia è in coma, ma i bocconiani ignorano che il sottoconsumo è l’inizio dell’immobilità della morte. L’ammontare enorme delle imposte non entra se non in parte nel circuito economico, e anche i profitti dei giovani emigranti saranno spesi all’estero, un domani. Tra breve ci troveremo in un paese di pensionati che alimenta con le proprie pensioni i figli quarantenni a spasso e che, tra pochi anni, sarà un paese dove il popolo dovrà ricorrere all’arte di arrangiarsi, altro che sociale!, per poter sopravvivere in quanto saranno scomparsi i nonni pensionati e i padri non avranno avuto il diritto di diventarlo. Ma un Paese così, cui prodest? Lo sappiamo tutti, ma non diciamolo per scaramanzia. Ma non basta tutto ciò: la stessa mente illuminata che ha deciso di distruggere la proprietà privata e con essa le attività connesse, ha deciso che chi investe in Italia, invece di essere accolto col tappeto rosso e le fanfare, deve pagare una cospicua tassa per l’onore che il nostro Paese gli fa di concedendogli di correre il rischio. Che altro dire? Non ci resta che rivolgersi a Keynes, alla sua politica economica che salvò il mondo, alla sua attenzione alla domanda come impulso del moltiplicatore del reddito nazionale, all’evasione fiscale e all’emissione monetaria allo scoperto da usare come dighe contro la rovina economica del Paese. Ma qui da noi, nelle superuniversità dai quali escono i soloni – economisti, i termini "pensione", "economia politica" e "politica economica" hanno assunto un diverso significato. Resta chiaro e univoco quello di "vitalizio", di "pensionedoro" e altri consimili dei quali godono gli animali che, nella fattoria, sono più "uguali" degli altri.