Riflessioni di un conservatore di provincia
Sulle strade dell’Irpinia si viaggia a tra(di)zione integrale
di Giuseppe Grasso
Dice Sabino Morano che in Irpinia “le strade sono troppo lunghe per non occupare il tempo facendo lavorare la mente mentre le si percorre”. Viene quindi spontaneo chiedersi se anche il suo libro “Riflessioni di un conservatore di provincia” (Iuppiter Edizioni) non sia stato pensato seguendo gli itinerari dell’entroterra campano. Ma è probabile che sia andata così: lo stesso volume infatti è un viaggio nella galassia dei conservatori e nella vita dell’autore, mossa da un genuino amore per la sua terra e per la politica. Il titolo dell’opera ci dice già tutto: iniziamo dalle riflessioni.
Indubbiamente la materia in oggetto, la politica, non è di facile trattazione, per le profonde emozioni che essa può suscitare, ma Morano su questo non ha dubbi: le sue posizioni, al di là del fatto che le si condivida o meno, sono sempre salde e sicure, né esita a portare acqua al suo mulino facendo leva sulla convinzione che solo “una grande forza conservatrice”, uno dei tanti leitmotiv del testo, sia in grado di rappresentare la piena maggioranza degli italiani, in quanto custode e alfiere dei valori più genuini della nostra terra. Valori che, dall’altra parte del fiume, la sinistra internazionalista e relativista tende a cancellare in nome di un’uguaglianza che sa di elitarismo, e che apre più o meno consapevolmente le porte della nostra società ad un’alta finanza parassita e speculativa che prende possesso del lavoro, delle ricchezze, delle vite di tutti noi. Qui sta il conservatore.
Infine c’è la provincia, la cui appartenenza è continuamente rievocata come un vanto per la dimensione umana e politica che ne costituisce l’habitat, giudicata dall’autore sana e necessaria, humus nel quale germoglia e si radica il seme della tradizione e dell’identità di un popolo.
Al di là delle ideologie non si può negare che Morano si muova agilmente su un terreno che conosce più che bene, descrivendo con sicurezza ed un’apprezzabile preparazione teorica (molto interessanti i capitoli su burocrazia e sovranità, dove figurano Mosca, Kelsen e Schmitt) la storia della destra italiana da AN a Berlusconi, della sinistra e del centro (leggasi DC), dei quali tuttavia non manca di elogiare validi rappresentanti, per poi passare alle elezioni americane da Obama a Trump, al populismo, alla fine della prima repubblica e alla nascita del sindacismo e della partitocrazia, fino al Gruppo Bildeberg e ad un’analisi della società che più ci riguarda da vicino, come nel caso dell’omosessualità contrapposta alla famiglia tradizionale, alla quale va il merito di essere sempre lucida, scevra da complottismi e mai dichiaratamente astiosa (si vedano i capitoli “Il caso Samoa” e “Il Popolo della Libertà”). Non manca il giusto spazio riservato all’ironia e di quando in quando anche a parentesi più leggere, per dare un sapore aggiunto ad una materia che rischia per alcuni di essere un po’ insapore, come in una buona ricetta.
E come una buona ricetta nasce da tanti ingredienti a formare qualcosa di nuovo, il libro mantiene sempre una coerenza ed un’identità definita pur nella moltitudine di argomenti toccati, esattamente come il famigerato ragù messo a cuocere nel capitolo finale: tante componenti diverse unite a formare un piatto denso e omogeneo, dalla cottura lenta e dal sapore antico. Forse non a caso l’autore ha scelto di chiudere così il testo, con una metafora che racconti non solo l’auspicata formazione conservatrice ma anche la sua vita. Da un conservatore non ci aspettava nulla di diverso.