Quell'intellettuale che fa rap

Alessio Mariani aka Murubutu: una vita tra rime e filosofia

    di Roberto Rosano

Alessio Mariani ha l’affabile piglio della bassa padana. Statura elevata, lieve stempiatura,  barba curata, complessione gagliarda, sfinata dall’intensa attività podistica. La voce proprio non saprei descriverla, forse dovrei ricorrere all’onomatopea del tuono o del djembe africano. A colpo d’occhio non lo diresti rapper, men’ che mai professore di psicologia e di filosofia, seppure sia l’una e l’altra cosa senza che tu lo indovini. Del professore non ha le spalle curve e ossute, le gambette da fringuello, lo sguardo di un bimbo sempre impaurito, rimproverato, che ti guarda dietro gli occhiali da miope. E del rapper non ha nulla. Non ha l’aria del disagiato sociale, dell’intelligente che a scuola non si applica, del ribelle incompreso, del taciturno che non parla se non per regalare al mondo parole di grezza intelligenza che, fra’, cioè spaccano!

Alessio Mariani è Murubutu, che è tutta un’altra cosa. È un intellettuale che fa rap con l’abilità di contaminazione di un vecchio alchimista arabo, facendo della narrativa, della saggistica e del rap un’unica lega, che si adora o si disprezza. È un rapper che sa incuneare storie di mondi lontani, storie di Storia. I critici hanno attribuito molte etichette al suo bizzarro, raffinatissimo modo di fare rap: gli hanno detto che fa del deandrèp, dei rap-conti, letteraturap. Insomma, è uno di quelli che quando toccano qualcosa, quando imparano un mestiere finiscono col non farlo da esecutori di standard, ma da capi scuola, da inventori di genere.

 

Professor Mariani, Lei di chi è figlio?

Ah, non immaginavo che avremmo iniziato così. Quindi, sarà un’intervista sociologica, a quanto pare.

Io inizio sempre così. Non è una domanda, è la Domanda!  

Mi piace, mi piace. Be’, sono figlio di Fernando e Daniela, un impiegato e una maestra di asilo. Poi sicuramente dal punto di vista artistico sono figlio degli anni ’90. Dal punto di vista sociale sono sicuramente un figlio degli anni ’80.

Che adolescente era?

Come tutti gli adolescenti: ribelle e in cerca di grandi ideali.

Sì, sì, insomma: pigro, disabituato al sapone dall’ultimo bagno di mamma, leopardiano… 

(Ride) No, no, leopardiano più nella preadolescenza. Invece, come adolescente ero molto creativo e in cerca di grandi ideali soprattutto politici.

Ha sempre avuto le idee chiare? Per esempio, ha eletto subito il rap come sua forma di espressione?

No, io ho iniziato col punk, nella scrittura. Anche perché ho iniziato a scrivere alla fine degli anni ’80, quando il fenomeno rap non era ancora emerso. Insomma, siamo cresciuti insieme io e il rap.

So che nel 1994 ha avuto la prima esperienza di storytelling, un pezzo in cui parlava del rapporto di un bambino con la religione. Era Lei quel bambino, professore?

Non era dichiaratamente autobiografica però lo era, alla fine. Ero sicuramente quel bambino, sì.

Che rapporto aveva con la religione quel bambino?

I miei genitori erano praticanti, mi obbligavano ad andare a messa tutte le domeniche e, quindi, catechismo, sacramenti… Diciamo che ho vissuto anche la realtà della parrocchia.

Come tutti i nativi italiani fino alla cresima. E poi? Ha cominciato ad evitare anche il sagrato?

Sì, sono cambiato perché per me la religione è stata, forse, in virtù delle persone che ho incontrato, soprattutto senso di paura più che amore e benevolenza. Paura per il peccato. Questo senso cupo di austerità mi ha portato progressivamente a viverla come una fonte di dominio e, quindi, come uno strumento di oppressione e di controllo. Io non ho battezzato mio figlio, per esempio.

A parte la dottrina e la sua insistenza sul peccato, Lei crede in Dio? Gli si rivolge quando ha freddo ed è lontano da casa, come direbbe Henry Newman?

No, io sono agnostico.

Parliamo del suo primo tentativo serio di storytelling, termine bastardo, che oggi fa fico, ma che vuol dire né più né meno che arte del racconto, per chi non lo sapesse: “L’atto isolato”. Parla di un argomento che aveva già affrontato nella sua tesi di laurea: l’argomento anarchico.

Oh, ma Lei è documentatissimo!

Ha visto? Manco la Cia e il Mossad messi insieme!

Vero, vero. È un grande stimolo.

Ricostruiamo un po’ il suo percorso. È di Reggio Emilia, vicinissimo all’Isola nel cantiere di Bologna, un tempio dell’hip hop militante insieme al Leoncavallo di Milano, al Forte Prenestino di Roma, all’Officina 99 di Napoli…

Sì, sì…

Con i Kattiveria inizia a produrre della musica politicizzata, sui temi della sinistra extraparlamentare, praticamente.

Esatto, esatto.

Tutto giusto? 

(Fa un solfeggio di naso, con piccole emanazioni che stanno per sì, sì, tutto giusto!).

E, a proposito di musica politicizzata, nel 2014 ha ricevuto persino un’accusa di Apologia delle Brigate Rosse. Il movimento di estrema destra, Forza Nuova, ha condannato un suo brano che, per sua ammissione, si ispirava alla storia di Prospero Gallinari, brigatista emiliano, coinvolto nel sequestro di Aldo Moro.

In realtà non ho ricevuto l’accusa io, ma il Comune di Bologna, che, in teoria, ha permesso che mi esibissi in uno spazio pubblico. Quindi diciamo che è un’accusa indiretta…Diciamo che ero l’oggetto del delitto.

Era davvero un’apologia di Gallinari, professore? Lo conosceva?

No, io non l’ho mai conosciuto, benché fosse un mio concittadino ed anche negli ultimi anni risiedeva a Reggio. Non era un’apologia, ma una biografia romanzata, ispirata alla vita di Gallinari, con un taglio squisitamente antropologico, non politico. Riflette sulla relazione tra l’individuo e il contesto in cui nasce. Non viene elogiato, questo è sicuro!

Lei politicamente come si inquadra?

Penso di essere un libertario e trovarmi a sinistra. Non ho una collocazione precisa, però.

Dire che è di sinistra è come dire che vive nella Via Lattea. Insomma, per chi vota?

(Ride) L’ultima volta ho votato per “Sinistra, ecologia e libertà”.

Ha cambiato idea?

Ma adesso vediamo se ci sarà ancora.

Capirà: la sinistra italiana è così gattopardesca. Cambia pelle, nome, marca, per non cambiare mai.

Vero, però non so dirle con precisione per chi voterò.

So che i suoi studenti le chiedono autografi, spiegazioni dei brani. Fa fatica a distinguere tra Murubutu ed il professor Mariani?

No, i miei studenti mi chiedono autografi, ma io non li faccio mai a scuola. Se me li chiedono fuori la scuola sì. Comunque, non ho problemi a confrontarmi con loro dal punto di vista artistico. Sono due ambiti separati, ma loro vengono a vedermi ai concerti e lì abbiamo modo di parlare di musica e di altro.

Perché si fa chiamare Murubutu?

Ah, allora non è così documentato!

Domanda retorica con finalità didattiche, professore.

(Ride) Murubutu deriva da marabutto, una figura che nell’Africa sub-Sahariana guarisce i mali sia fisici che sociali.

Che umiltà! Guarisce anche le scrofole come i re Capetingi?

No, no, no. (Ride) Quelle no!

Diciamoci la verità: Murubutu è una mosca bianca nel suo ambiente. O come direbbe Lei: un elefante in un mondo di pesci rossi. Il suo rap è dotto, tortuoso, sofisticato. Ascolta mai il rap più diffuso, il mainstream Usa? Il Dissin’, quel genere di rap che parla di droga, quello che parla di rap, il rap autocelebrativo… Insomma, il rap ignorante lo ascolta?

Sì, sì. Lo ascolto, lo ascolto.

E non ha mai affrontato temi un po’ più frivoli nella sua carriera? Magari agli inizi…

No, io ho sempre fatto musica abbastanza impegnata, concettualmente. Ehm, prima più politicamente, poi più culturalmente. Mi è capitato di fare pezzi più frivoli, facendo freestyle, ad esempio, mi è capitato di parlare di cose leggere…

Ma ascolta anche roba, tipo… Sembri fika tu, vieni su da Fikachu!? Fikachu, Fikachu… o si ferma un po’ prima?

Scusi, non ho capito!

Cito testualmente: Sembri Fika tu, vieni su da Fickachù!… Sei al primo posto dopo il rap, l’erba e il calcio, mi mandi un messaggio, dici che ti manco, vorresti un abbraccio. Rispondo al messaggio: foto del cazzo!

(Ride rumorosamente) Ma... ma chi è?

Un certo Jesto...

Ah, sì, ho ascoltato anche Jesto, sì! Sì, sì!

Ma non mi dica! Non ce la vedo! Si diverte insomma…

Ma mi diverte in senso etimologico. Nel senso che mi fa pensare ad altro. Io amo andare a correre e, quando vado, ascolto ogni cosa, compreso il rap ignorante. Poi, guardi, il rap ignorante anche se vale nulla per quanto riguarda i contenuti, ha comunque una componente tecnica da non disdegnare.

Ho capito: apprezza la tecnica, ma per i contenuti… Su Fikachu c’è poco da dire, insomma!

Ahahahah, esatto!

Parliamo un po’ delle sue influenze: c’è la canzone d’autore italiana coi vari Gaber, De André, Guccini… C’è il naturalismo francese, c’è il realismo magico. Mi stavo chiedendo: sa che David Mikics ha scritto un saggio sull’importanza del leggere con lentezza nell’epoca della fretta. Lei non pensa che un limite del racconto rap sia la velocità eccessiva? Voi sputate parole, le centrifugate. Ho ascoltato la sua “Diogene di Sinope e la scuola cinica” che va parecchio a spron battuto…mi è venuto l’affanno ed al momento il settanta per cento del pezzo è rimasto un rebus oscuro.

Certo, certo.

Lo fa solo per virtuosismo o ha un senso?

Ma in realtà ho fatto anche pezzi lenti…

Sì sì, però...

Nell’ultimo album ci sono pezzi molto veloci con la tecnica dell’extrablat, come si dice nel settore, ma anche brani più lenti. Anche alcuni cantautori hanno cantato velocemente, pensi a Dalla!

Be’, sì, Dalla, se è per questo, si esibiva in gramelot che manco Dario Fo! Però, insomma, andava più adagio.

Vede, confrontarsi con tante forme espressive ed anche con tante velocità espressive è consuetudine della canzone.

Mi spieghi una cosa: glielo chiedo da profano: quando si fa rap bisogna modulare la respirazione, badare alla fonetica, incastrare le rime e in più, nel suo caso, raccontare storie che hanno una coerenza logica. Come si fa? Lei come fa?

Mah, io ho un approccio molto letterario. Quando scrivo rime do molta importanza sia all’aspetto tecnico che alla trama. Unisco le due cose. Sì, sicuramente si tratta di tanti fattori che concorrono ad un’unica causa, però pensiamo che nel rap raramente c’è una conoscenza musicale accademica, perciò non è così difficile.

Insomma, oggi le viene naturale. È un po’ come guidare una macchina: all’inizio bisogna stare attenti alla frizione, al cambio, all’acceleratore… Poi diventa un automatismo… È così?

Sì, sì, mi viene naturale, ma cerco sempre di migliorarmi, di inserire componenti melodiche. Cerco di perfezionare il mio rap come la consuetudine alla guida, insomma!

Su youtube ho trovato quei tali Fada e Barlow della First Impression. Ascoltando il suo ultimo album hanno detto innanzitutto che ha un brutto timbro…

Sì, è vero! (Ride)…

Però hanno anche detto che è musicalmente eccelso, che fa testi straordinari… Dicono che ha carcato il culo a De André e che, insomma, dopo averla ascoltata hanno conosciuto un male di vivere, un’angoscia…

Eh, va be’, ma quello di questi ragazzi è un divertissement. Bisogna prenderlo per quello che è. Non è un vero ascolto, ma più un intrattenimento… Comunque, confermo il parere sul timbro. Io con questo timbro qua non so che fare, provo a non pensarci…

Ma io lo trovo molto bello… Non che il mio parere valga qualcosa, ma è una bella sporcatura, una preziosa caccola, come si direbbe in gergo teatrale!

Sì, Sì, poi voglio dire, naturalmente De André non si tocca, però hanno spesso detto che io ho fatto del deandrèp. Perché sicuramente è un rap fortemente ispirato allo storytelling della canzone d’autore italiana tra cui spicca De André.

Ho dato un’occhiata alla sua discografia ed ho cercato di concentrarmi solo sui titoli. La bellissima Giulietta ed il suo povero padre grafomane, ad esempio, mi ha fatto pensare ai famosi titoli di Gabriel Garcia Marquez, La incredibile e triste storia della candida Erèndira e della sua nonna snaturata… È una mia impressione o Lei fa un po’ il verso a Gabo nei titoli? Perché non è l’unico titolo che segue questo calco.

Sì, sì, è vero. Sicuramente, era un periodo in cui leggevo molto Marquez. Penso di aver letto tutto di lui, a parte le autobiografie. Il titolo che ha citato è fortemente autobiografico. Giulietta è mia figlia ed il povero padre grafomane sono io!

Ma è cambiata un po’ la sua situazione economica da quando ha iniziato a fare questo lavoro seriamente o è rimasto un povero padre grafomane, professore?

No, be’, non è cambiata in modo significativo…

Uhm, arrotonda insomma...

Adesso non mi chieda anche la dichiarazione dei redditi! (Ride sornione)

Mi ha fermato giusto in tempo perché gliel’avrei chiesta! Senta, ma se non approfitto delle interviste per fare domande scostumate, capirà che…

Sì, sì. Non si preoccupi! (Ride) Non si preoccupi!

Ora, torniamo seri: so che nel suo caso si è parlato di rap didattico, di concept-album, di rap-conti. Insomma tante etichette. So che alcuni suoi colleghi di storia fanno ascoltare la sua “Battaglia di Lepanto” e quelli di italiano per spiegare le figure retoriche adoperano la sua “Armata delle tecniche”. Lei fa lo stesso?

No, io non l’ho mai fatto. Non mi piace proporre il mio materiale artistico in classe, mi sembrerebbe di imporre…

La sua voce, insomma...

Sì, sì, mi sembrerebbe un po’ troppo supponente. Però, mi fa piacere se lo fanno i colleghi, ovviamente.

Parliamo un po’ del suo ultimo album. 2016. Un altro titolo mirabolante: L’uomo che viaggiava nel vento ed altri racconti di brezze e correnti. Perché il vento?

Perché è un buon comune denominatore per collegare tanti racconti. Perché sicuramente caratterizza molto i paesaggi, perché l’influenza dei naturalisti si sente molto sulla mia scrittura. Io ho sempre bisogno di paesaggi da descrivere per contestualizzare i brani. E poi perché è un’ottima metafora: il vento è un viandante e presso molti popoli pensano sia un raccoglitore di storie e che le porti con sé nel suo grembo, in eterno.

So che le piacciono molto i viaggi nel tempo, sia nel cinema che nella letteratura. Ma questo suo nomadismo è solo letterario? Le piace viaggiare?

Sì, sì, mi capitava più prima che non avevo famiglia, però sì viaggio ancora abbastanza. Il viaggio che mi ha segnato di più è sicuramente quello che ho fatto a Cuba, in gioventù.

Come mai?

A Cuba sono entrato in contatto con un altro tipo di cultura e di società. Ci sono molte più garanzie economiche. Nonostante i limiti imposti dalla dittatura castrista, ho visto un approccio alla vita semplice, spontaneo e soprattutto una sicurezza sociale difficile da riscontrare in altri Paesi, in altre culture. Una cultura intessuta di musica, di magia… Insomma, mi ha colpito molto…

Hanno detto che il suo stile con quest’album è cambiato molto. Che si è ammorbidito, addolcito. Gli altri avevano incastri più veloci, ambientazioni più cupe. Si è fatto un po’ più melodico. L’hanno già accusata di essersi fatto più commerciale o no?

Sì, di solito il passo è breve. Però, nel mio caso non è stato visto come un cambio di passo o un voltafaccia. Ho già fatto brani più melodici, ad esempio L’isola verde. Non sono stato accusato di essere commerciale per il semplice fatto che conservo una coerenza notevole sui testi, che sono sempre pieni di riferimenti culturali. Non è un rap di facile fruizione e quindi nient’affatto commerciale.

Senta è vero che le piace la neurologia romanzata? Questa passione ha ispirato la sua L’uomo che non dimenticava nulla, su un celebre caso clinico della Russia del ‘900. Perché questa passione bizzarra?

Ma perché nella neurologia romanzata spesso si spiegano molti interrogativi filosofici, soprattutto la prosa di Oliver Sacks la trovo molto efficace. Mi è piaciuto anche molto Ramachandran, che è un altro neurologo. Mi hanno molto ispirato per i miei testi ed anche per alcune lezioni di psicologia.

Il prossimo album? Cosa ci racconta?

Sarà un’altra raccolta di racconti, per ora sto curando la parte musicale. E’ ancora tutto in fase embrionale. Mi hanno anche chiesto di scrivere racconti su carta, ma non so se sono ancora pronto. Io ho ancora bisogno della musica. Spesso, dicono che il mio prossimo album sarà sul fuoco, visto che gli altri due erano ispirati all’aria e all’acqua, però mi sembra un po’ troppo prevedibile questa successione degli elementi. Penso che sarà un album sull’apeiron.

Ma non ha ancora scritto nulla?

No, anche perché io ho le maturità adesso. Perciò dovrò pensare prima a quelle.

Posso chiederle che lezione ha fatto oggi a scuola?

Sì, sì. Oggi in verità ho interrogato. Ho interrogato su Kant su tutte e tre le Critiche e invece alla terza ora ho interrogato sulla Scuola di Francoforte, su Sartre…

Grazie mille, professore.

Grazie a Lei. A proposito, avrò occasione di vederla allo Scugnizzo? Se viene a Napoli, mi fa piacere, facciamo due chiacchiere prima del concerto.

Volentieri. Senta, però devo dirle una cosa: Meta che diede mai noia fu usare mannaia sul pel LeviatanoMeta-che-diede-mai-noia-fu-usare- mannaia… Devo chiamare Champollion il Giovane, quello che ha decifrato la Stele di Rosetta, o me lo spiega Lei? 





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