L'amore litigarello

Meglio non chiamare l'ex moglie "mantenuta"

    di Adelaide Caravaglios

Siamo alle solite: due ex-coniugi che litigano ed il Supremo Consesso che interviene per dirimere la controversia (Cassazione, V Sezione penale, sentenza n. 522 del 5 gennaio). Questa volta a pagarla ‘cara’ (nel vero senso della parola: 1.000,00 euro di multa più altri 5.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale cagionato) è stato un ex-consorte, il quale – nella causale dei vaglia postali che mensilmente versava a titolo di mantenimento – aveva pensato bene di usare l’aggettivo “mantenuta” per definire l’ex. Chiaramente lei non ci sta e decide di chiamarlo in giudizio per vederlo condannare per il reato di diffamazione (art. 595 c.p.).

È successo che sia i giudici di merito che quelli di legittimità le hanno dato ragione, nonostante il tentativo di lui di minimizzare l’accaduto sostenendo che nessuno avrebbe potuto leggere la frase diffamatoria, stante la strettissima tutela della privacy. A nulla, però, gli sono servite simili scuse: per gli ermellini, infatti, doveva ritenersi pienamente configurata la fattispecie prevista dall’art. 595 c.p., in primo luogo, perché «il termine “mantenuta” risulta offensivo della reputazione della donna, riferendosi alla nozione comunemente accettata in ambito sociale di percettrice di reddito, in assenza di qualsivoglia prestazione lavorativa»; in secondo, perché «il contenuto del vaglia postale non resta riservato tra il mittente ed il destinatario, ma, per necessità operative del servizio postale (registrazione, trasmissione e comunicazione del destinatario), entra a far parte del patrimonio conoscitivo di più persone, addette all’ufficio incaricato».

Hanno, quindi, rigettato il ricorso e condannato il gentleman al pagamento di tutte le spese di giudizio, inclusa quella relativa al risarcimento del danno.





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