Il mito Colapesce e i figli di Nettuno

Viaggio nelle leggende 'marine' di Napoli

    di Flora Fiume

Una delle caratteristiche di Napoli, o meglio, una delle sue più grandi magie, risiede nel fatto che quello che più sfacciatamente appare alla vista non è che una parte infinitesimale di tutto quello che si può scoprire con uno sguardo più attento o di tutto quello in cui ci si può imbattere quando meno te lo aspetti. Il mare, il Vesuvio, Piazza Plebiscito, il San Carlo, il Maschio Angioino abbagliano la vista. Ma ci sono piccoli segreti che hanno il sapore della bellezza improvvisa. Uno di questi è un piccolo bassorilievo che si trova sulla facciata di un palazzo di Via Mezzocannone. Ufficialmente raffigura Orione, uno dei figli di Poseidone secondo il mito greco. Un uomo barbuto, ricoperto di squame, con in mano un coltello. Ma secondo la tradizione popolare quel bassorilievo, rinvenuto durante la ricostruzione di Via Sedile di Porto, in piena epoca angioina, in realtà rappresenterebbe il leggendario Colapesce. Si tratterebbe cioè di Nicola, il giovane protagonista di una leggenda antichissima, che ha alimentato scritti di letterati, filosofi e studiosi, oltre che credenza popolare.

Nicola era un ragazzetto partenopeo famoso in tutta la città ai tempi di Federico II grazie alle sue abilità subacquee. Trascorreva intere giornate sott’acqua e poi raccontava le mirabilie di quello che aveva scovato negli abissi: navi abbandonate, palazzi inabissati, strane creature. La madre disperata lo maledì: “Che tu possa diventare un pesce!”, gli disse. E la maledizione andò a segno. Il ragazzo si trasformò in uno strano essere, un po’ uomo, un po’ pesce, con squame e branchie, che tutti iniziarono a chiamare Colapesce. Così trasformato, non si perse d’animo, e ancora di più continuava nelle sue missioni sottomarine, anche giocando a farsi inghiottire da pesci enormi per poi uscirne squarciandone il ventre con il pugnale che aveva sempre con sé. La sua storia stuzzicò la curiosità di Federico II. Colapesce iniziò quindi a tuffarsi per lui, dietro sua richiesta, e ogni volta che spuntava dal mare portava con sé doni e gioielli preziosi recuperati nei fondali per il re. Un giorno questi lo mise alla prova offrendogli in cambio la mano della figlia, se solo avesse recuperato dei gioielli lanciati negli abissi dello stretto di Messina. Ma da quell’ultimo estremo tuffo il ragazzo non riemerse, restando imprigionato in uno spazio al di sotto del mare, così profondo, da essere privo di acqua. Le acque sopra di lui fecero da marmo sepolcrale tumulandolo nelle più inabissate profondità.

Di Colapesce parla Calvino nella sua raccolta di Fiabe Italiane. Raffaele Viviani scrisse una poesia dedicandogliela, e anche Benedetto Croce approfondì la sua figura. Scoprendo una particolare attinenza della leggenda con la confraternita segreta dei sommozzatori detta de I Figli di Nettuno (‘e figli ‘e Nittuno). Il loro scopo era quella di recuperare le ricchezze e i tesori conservate nelle grotte subacquee del golfo di Napoli. Per farlo occorreva riuscire a restare in apnea molto a lungo grazie ad un espediente naturale: ingerendo una particolare alga marina essi acquisivano il potere di rallentare il ritmo cardiaco e la respirazione.

Secondo qualcuno gli ultimi discendenti degli adepti di questo culto tardo-pagano erano presenti a Napoli anche durante la seconda guerra mondiale. E’ di quel periodo la misteriosa sparizione di natanti nel porto di Napoli, insieme con il rinvenimento di monete e monili antichi finiti con l’arricchire collezionisti stranieri che, secondo quanto da essi stessi documentato in corrispondenze privati, ben sapevano di doversi rivolgere in una “precisa grotta marina del litorale, verso Miseno, all’uomo colapesce!”, come si legge sul testo di Mario Buonoconto sulla Napoli Esoterica.





Back to Top