Io la mora non la pago

Cartelle pazze ed equivoci lessicali all'Agenzia delle Entrate

    di Amedeo Forastiere

La lingua italiana è sicuramente tra le più difficili al mondo. Basta togliere o mettere una virgola per modificare il senso di un discorso. Il punto interrogativo e quello esclamativo cambiano la sorte di processi, condannando o assolvendo imputati. Una stessa parola può avere più di un significato. Tranquilli, non voglio fare una lezione di grammatica, non ho né l’intenzione né la facoltà, ma solo raccontarvi un fatterello vero e divertente, seguitemi.

La scorsa settimana sono stato allAgenzia delle Entrate, il posto più odiato dagli italiani, forse ancor più del camposanto. Uso un’espressione romanesca: li mortacci loro! Mi arriva una delle tante cartelle pazze, già la sua classificazione dice tutto. Non so se vi è mai capitato, ma in quegli uffici sembra di sentirsi un evasore seriale. Sarà il luogo, l’austerità degli operatori che ci guardano con severità, quasi a farci sentire rimproverati, come quando combinavamo un grosso guaio da bambini e temevamo la punizione.

Sappiamo bene che le tasse le abbiamo pagate tutte, e se anche avessimo avuto qualche volta, così, la tentazione di trasgredire e non pagarle, come si fa a evadere il fisco con reddito fisso, stipendio o pensione?

Torniamo all’Agenzia. Quel dubbio, anche se privo di fondamento, mi fa tremare le gambe. Prendo il numerino, G-017, lo guardo e penso: G, come guaio, 17 nella cabala porta male, tra me mi son detto: Sto’ proprio n’guaiato. Nell’attesa guardo i messaggi sullo smartphone, pochi minuti, poi sullo schermo della sala si accende il G-017, sportello 5, anche questo numero nella cabala ha un significato ben preciso: la mano. Rapidamente faccio una somma di tutto: G, guaio, il 17 porta male, 5 la mano con la quale l’agenzia preleverà i soldi dalla mia tasca?

Come un condannato che non ha nessuna possibilità di salvezza, mi avvio verso il patibolo. Il numero 5 non è il classico sportello di una volta, come quello della ditta Pasquetti trasporti perfetti, nel film di Totò e Peppino, del 1962, Chi si ferma e perduto. Ma un ufficio grande, quattro scrivanie, con operatori e pc. Una giovane donna mi fa segno di sedermi alla sua scrivania, le porgo la cartella chiedendo spiegazioni, c’è scritto di tutto, tra articoli e comma, tranne perché devo pagare.

Buono buono, aspetto in silenzio quasi monacale che l’impiegata consulti al computer la mia posizione, quando a un certo momento entra un signore. Anziano, alto, snello, l'aspetto elegante di una volta. Vestito doppio petto a righe, camicia azzurra con cravatta leggermente bizzarra, polsini con gemelli, scarpe nere lucentissime, un sottile bastone con manico d’argento, una testa di levriero, capelli trattati con lo shampoo al nero di seppia. Entra con garbata eleganza, domanda alla donna, diversamente giovane, nella prima scrivania se può accomodarsi. Lei risponde: Certo signore, prego.

L’anziano, che sembra uscito da una fiction del passato in bianco e nero, porge la cartella all’impiegata e le domanda: Signora, perdoni la mia totale ignoranza in materia, ma proprio non riesco a capire niente di questa cartella, ma in particolar modo la cifra, così esosa, a cosa si riferisce? Può essere così gentile da darmi delucidazioni?

L’impiegata lo guarda basita, tanta gentilezza, garbo, educazione e stile, secondo me non l’aveva mai vista. L’anziano impeccabile, per non dare una piega ai pantaloni, nemmeno accavalla le gambe, in attesa stringe la testa d’argento del levriero. Ormai l’attenzione non è più sull’impiegata che cerca al computer la mia posizione, ma solo sull’anziano con il nero di seppia tra capelli. La giovane impiegata cerca di decifrare la mia cartella, poi si alza e mi dice di aspettare, perché deve andare dal capo ufficio, la cosa mi mette ansia: Che cosa è successo? Vuoi vedere che mo mi arrestano per evasione fiscale? Nel nostro paese tutto può accadere.

Nell’attesa approfitto, giro la sedia in posizione da teatro, terza fila centrale, per seguire meglio l’accertamento dell’anziano rigato. La cifra che deve pagare è abbastanza alta per lui, che sicuramente sarà un pensionato, duemilatrecento euro. Non riesco a capire bene a cosa si riferisce, l’impiegata parla a bassa voce (la privacy). Ma una parola è chiara e forte: Di questa cifra ci sono ottocento euro per pagare la mora. A un certo momento sento che l’anziano, fino a un istante prima buono buono in silenzio, alza la voce, rimproverando l’impiegata: Signora, come si permette? Io sono una persona perbene, certe cose non le ho mai fatto, lei è un’insolente, si vergogni. Nella mia vita non ho mai pagato una donna, lei adesso senza contegno mi dice che devo pagare una mora?

L’impiegata si perde, non sa cosa rispondere, poi si riprende, capisce l’equivoco, ma peggiora la situazione: Egregio signore, la mora che deve pagare può farlo anche a rate, non è che aumenta il prezzo. L’anziano della fiction s’incavola, comincia a tremare, tipica reazione di chi sta perdendo la calma.

Tutto dritto come una recluta davanti a un superiore, scandendo bene le parole dice: Signora, probabilmente non sono riuscito a spiegarmi bene. Io non ho mai pagato, né una bionda, né una castana, né una rossa, tanto meno una mora. Lei, oggi, alla mia età molto avanzata mi dice che devo pagare una mora? Non aggiunga altro, è stata sin troppo chiara, lo sprovveduto sono io, ignoravo che l’Agenzia delle Entrate facesse sfruttamento della prostituzione. L’impiegata cerca di parlare, forse vuole spiegarsi meglio, chiarire l’equivoco, ma l’anziano, stringendo con forza la testa d’argento del levriero le dice. Non vada oltre, taccia, in questo stesso istante andrò al comando dei Carabinieri a sporgere denuncia.

Sempre impeccabile, senza fare una piega, poggiandosi leggermente al bastone, lascia l’ufficio con lo stesso passo di un attore quando esce di scena. Guardo l’impiegata che resta senza parole per alcuni minuti, il suo sguardo smarrito s’incrocia con il mio altrettanto confuso. Rivolgendosi a me che la guardo dice: Ha visto con chi abbiamo a che fare? Quest’ufficio è diventato un manicomio, mi creda una clinica per pazzi. Le rispondo: A me è sembrato più un teatro. Poi annuisco, pensando a quello che spesso diceva Eduardo de Filippo: Napule è ‘nu paese curiuso è ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza fa scola ‘e recitazione, senne p’ ‘e strate e sape recità.

Ragazzi, alla prossima.





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