Nessuno in mostra
Il 2 aprile alla Saaci/Gallery di Saviano, ritratti e autoritratti di quattordici artisti
di Liberato Russo
Indagini introspettive attraverso la rappresentazione di sé e degli altri. L'immagine diffusa e quella intima, spesso nascosta. “Nessuno in mostra” è il titolo della mostra visitabile il 2 aprile, alle ore 18, alla Saaci/Gallery di via Padre Girolamo Russo 9 di Saviano (Napoli). Si tratta di un’esplorazione, una delle tante possibili, sull’individuo "rappresentato" con i mezzi a disposizione degli artisti.
Black Napkin, Cento Ottantanove, Lisa Cutrino, Sergio Fermariello, Gianluigi Gargiulo, Joyce Kubat, Federico Lombardo Rosaria Matarese, Luigi Pagano, Caroline Peyron, Camillo Ripaldi, Vincenzo Rusciano, Lucia Schettino, Luisa Terminiello espongono ritratti e autoritratti ‒ naturalmente ben poco interessati alla fisiognomica ‒, questi ultimi da ritenersi, rispetto ai primi, una parte per il tutto: l’artista usa la propria immagine come sineddoche, in qualche modo esponendo attraverso essa anche la sua visione dei propri simili. Ma è anche una mostra che accoglie opere ‒ e quindi riflessioni ‒ più in generale sul tema dell’identità: “Nessuno in mostra” è il titolo con cui ci si vuole riferire al diffuso allarme sollevato dal dibattito largamente praticato sulla questione in tempi recenti. Per una pura ‘coincidenza’, negli stessi giorni in cui si andava definendo il progetto di questa mostra, la redazione di “Levania. Rivista di poesia” lavorava al nuovo numero: un numero tematico i cui contenuti, pur se attenti prevalentemente all’ambito della scrittura, per una significativa parte saranno gli stessi di “Nessuno in mostra” e consentiranno tra l’altro di osservare dove e come s’incontrino, oggi nelle diverse arti, l’avanzare della rappresentazione e della autorappresentazione e il declino della potenza di significazione del linguaggio una volta definito letterario proprio in virtù di un’eccedenza di connotazione. Questo il testo di presentazione della mostra, elaborato da Saaci/Gallery e Levania:
«Lasciando per un momento l’ambito dell’arte, in effetti il corpo, e il volto che ne è parte (e di esso la più identitaria), non è vero che sia ‘presente’ più di prima: si è anzi come allontanato e si lascia sostituire dalla sua immagine, quella sì oltremodo invadente. Il bisogno di incontrare l’altro in persona pare stia raffreddandosi: sempre più ci conosciamo e guardiamo e frequentiamo attraverso ‘riproduzioni’, specialmente fotografiche, e ci fidiamo di come l’altro appare (o meglio: riesce ad apparire) senza indagare più di tanto per afferrare quel che davvero è. Ciascuno di noi è esposto, e molti di noi esercitano il più possibile efficacemente la pratica dell’esporsi e del garantirsi l’ammirato riconoscimento dell’immagine che intendono trasmettere di sé impegnandosi quotidianamente in una sorta di campagna auto-pubblicitaria. In sostanza, si disseminano a larghe mani ritratti ‒ e autoritratti ‒ “celebrativi”, estremamente poveri e ripetitivi: per constatarlo basta farsi un giro in Facebook. Messa a punto la nostra immagine, la facciamo circolare più o meno largamente, decidendo in base al nostro gusto (o "strategia comunicativa") se vogliamo diffonderla smisuratamente o piuttosto con più garbo ed eleganza centellinarla. Molti sono disposti ad apprezzarla o, meglio, a dire che la apprezzano, per riceverne in cambio un analogo trattamento. Quanto più riusciamo a imporre la nostra auto-rappresentazione, tanto più riusciamo a celare quella temuta sostanza che siamo e che non vogliamo rivelare, mettere o far mettere a fuoco. Percentualmente, il ritratto sembra ormai svettare tra i tipi di immagini che ci bombardano; percentualmente, la pratica dell’autoritratto si è guadagnata una presenza nell’ambito del "genere" del ritratto che nessuno fino a poco tempo fa avrebbe potuto prevedere. Il caso Vivian Maier è eclatante non solo perché post mortem si è scoperta un’artista notevole, ma perché il suo tema prediletto era l’autoritratto, divenuto nel frattempo, specialmente attraverso il selfie, fenomeno di massa.
Nessuna immagine è la stessa cosa della cosa cui si riferisce. Nel campo dei messaggi visivi, questo vale sia per quelli non artistici che per quelli artistici, anche se la ‘ricchezza’ dei secondi è, può essere, molto superiore a quella dei primi, come sarebbe bello che a tutti fosse evidente. Quelli artistici ‒ per le arti visive ci sembra di poterlo sostenere ‒ sono tuttora in grado di darci immagini non inutili e scialbamente ‘constatative’: nel caso del ritratto, immagini non allineate a quelle standardizzate così largamente diffuse, interpretazioni e visioni adeguate all’attuale condizione, opere di questi nostri tempi che tenendo conto di tutto quanto detto, e in vari modi dandone testimonianza, hanno senso e potenza. Chi non si appiattisca sull’attuale condizione ci sembra voglia reagirvi perlopiù ‘con emozione’, impegnandosi alla ricerca dell’identità minacciata o denunciando con diversi accenti la minaccia stessa. Si capisce bene, perciò, come mai anche alla ribalta dell’arte tornino prepotentemente il corpo e il volto: la figura umana nella sua più o meno immediatamente percepibile fisicità. All’arte si affida il compito di esprimersi emotivamente mettendo in mostra sul corpo ferite, tormenti, incertezze, solitudini, paure, faticosi tentativi di emergere dallo sfondo o di restituire malinconicamente un inevitabile sbiadirsi; al ritratto si affida il compito di registrare l’identità smarrita e lacerata, una residua presenza. L’uomo è al centro, campeggia in tutta la sua fragilità e si espone secondo modalità tutt’altro che autocelebrative, e la semplicità dei mezzi artistici prevale molto spesso su istanze concettuali e ambizioni sperimentali. Ad essere al centro dell’opera non è più tanto il linguaggio o la riflessione su di esso quanto, piuttosto, l’indagine introspettiva, l’ancorarsi strenuo alla vita, la memoria da cui partire per ricostruirsi un’identità, la richiesta volta all’osservatore di immedesimarsi, la proposizione di una qualche verità semmai piccola, frammentata ed evanescente, ultima o penultima.
Letteratura, arte e filosofia mostrano come la riflessione sull’io e sull’altro, da Omero a Lacan, si sviluppi senza soluzione di continuità nella cultura occidentale. Nel Saggio sull’intelletto umano di John Locke l’identità personale entra in crisi perché non regge più l’idea che l’anima sia il fondamento delle nostre esperienze e dell’Io. A questo punto la nostra identità esiste solo grazie ai nostri ricordi, alla nostra memoria, alla nostra coscienza. Nel suo Trattato sulla natura umana, David Hume finalmente afferma che l’Io è solo un’idea che non esiste; noi non esistiamo perché ci modifichiamo ogni istante, ogni attimo. L’identità è un’invenzione, finzione solo psicologicamente comprensibile. Noi siamo solo una raccolta di differenti percezioni, che mutano, si trasformano velocemente e senza sosta, ma stupidamente ci crediamo unici, sempre uguali, immodificabili. In realtà noi non siamo nessuno. Gilles Deleuze afferma in Differenza e ripetizione che “tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione”. Nella teoria lacaniana non c'è identità, ma solo differenza: ogni elemento può essere visto solo in rapporto a tutti gli altri: siamo quello che non siamo».