Il suicidio delle agenzie

Le imprese affidano la pubblicità agli analisti di dati

    di Silvio Fabris

Quando ho cominciato a lavorare nel mondo della pubblicità agli inizi degli anni ’70, le agenzie venivano remunerate dalle imprese con accordi diversi. Con il successo delle campagne, il budget cresceva e, di conseguenza, cresceva anche la notorietà delle agenzie, senza che ci fosse un aumento dei costi e ciò rappresentava veramente una manna dal cielo.

Del lento suicidio è causa anche la pressione delle multinazionali che, per fare fatturato, ritengono addirittura ingombranti i direttori creativi più importanti, credendo la sola remunerazione per la consulenza creativa non sufficiente a sostenere i costi delle strutture pubblicitarie.

Vari analisti hanno decretato la morte della creatività e il radioso futuro del business data driven. Ormai tutti vogliono fare tutto. Si sono messi a lavorare nel settore centinaia di singoli operatori oppure piccole strutture molto abili a maneggiare la neo-lingua di Internet, offrendosi a costi bassissimi. Inoltre, senza sapere nulla di comunicazione, ci si sente autorizzati a stabilire che strada debbano prendere gli investimenti pubblicitari e si riesce persino a sembrare credibili.

Appare chiaro che, se le agenzie perdono la corsa davanti alla consulenza generica e ai dati, non resterà più nessuno a conoscere le marche, nessuno che sappia farle crescere, che sappia creare quel “segno” distintivo e rilevante che nessun algoritmo saprà mai inventare. Un gap enorme da riempire. Perché quando sarai riuscito a raggiungere il tuo target studiando tutto di lui, dovrai però essere in grado di dirgli qualcosa.





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