L'altro volto del fondamentalismo
Farhad Bitani, figlio di un mujaheddin: dall'intolleranza al dialogo universale
di Roberto Rosano
Sono andato a capirlo, a cercare di capirlo. Perché la sua storia mi affascina, perché la rispetto, come tutte le storie degli uomini che hanno risolto un passato di atrocità e violenza in un cambiamento netto, senza giustifica, senza giacenze di dubbi. Farhad Bitani è figlio di un mujaheddin, il potente generale afghano Qasim. La Storia è entrata più volte in casa sua. Ha visto uccidere il presidente Najibullah, suo padre è stato arrestato per ordine del Mullah Omar, ha vissuto con la scorta alle calcagna e all’ombra dei servizi segreti per anni. I talebani lo vogliono morto e la ferita di kalashnikov che ha sulla spalla sinistra è il segno della fatwa che pende sulla sua testa. Il suo destino è stato fatto e disfatto dalla Storia, come un balocco. Ci troviamo a Torino, in un bar vicino al Lingotto. Bitani non è molto alto, ha il naso a dorso d’aquila, lineamenti incassati, un cappotto marroncino, a quadri gialli. A vederlo penso subito che, come a molti militari, l’abito borghese non gli si addica. Hanno un che di che goffo i soldati vestiti a quel modo. Ha un giovane segretario con gli occhiali che quando parla annuisce sorridendo. Pare rispettarlo molto. Dobbiamo far presto, ha mezz’ora soltanto, ma riesco a trattenerlo per molto più tempo. Ad attenderlo una giornalista iraniana che sarà costretta a rimandare. Parla a soggetto, Farhad, come un frasario, un catechismo. Mi sono chiesto quante volte si sia sentito fare le stesse domande e come riuscisse a rimanere così cordiale. Una pazienza degna di un ninja che acchiappa le mosche con le bacchette. Del resto ha il nome di un eroe iraniano che per l’amata Shirin scavò a mani nude la montagna di Bistoon e che perciò di pazienza non doveva mancare.
Bitani, Lei di chi è figlio?
Io sono figlio del generale afgano, Mohammad Qasim, e di sua cugina, una semplice casalinga, mai andata a scuola, ma di grande sensibilità.
Il suo Paese è stato agitato da tante dominazioni straniere, sin dai suoi albori. Indoariani, Medi, Persiani, greci, Mongoli, britannici, sovietici, americani. Le potenze del mondo, tutte hanno messo piede in Afghanistan...
Da sempre, sì...per la sua posizione strategica, la sua prossimità al Pakistan, all’Iran, alla Cina, alla Russia. Mio padre era uno di quelli che volevano l’indipendenza del nostro Paese dallo straniero. Ha sempre lottato per questo. Del resto mio padre è afghano ed il popolo afghano è guerriero per natura.
È possibile assimilare i mujaheddin ai partigiani, Farhad?
Non li chiamerei partigiani. Partigiano è un termine troppo eroico per i mujaheddin. Non ho una buona considerazione del loro operato. Hanno ucciso innocenti, hanno sparso sangue sulla terra dei loro Padri.
I mujaheddin, suo padre ne è un esponente di rilievo,sono stati appoggiati dagli americani per la resistenza anti-sovietica. Ad opera compiuta, però, gli americani si accorgono che questo gruppo non ha una leadership, che è diviso, che non può governare...
I mujaheddin sono nati per cacciare la Russia dall’Afghanistan, questo volevano gli americani. A liberazione avvenuta, hanno iniziato a dividersi per il potere. Così, gli americani hanno cambiato strategia. In combutta con il Pakistan e con l’Arabia Saudita, hanno iniziato a lavorare sugli studenti della scuola coranica, i talebani, e li hanno portati al potere.
Ma i talebani erano davvero gli spiantati studenti di cui si parla sempre, tutti giovani senz’arte? Insomma, non c’erano notabili, accademici, intellettuali più strutturati tra loro?
No, no, ragazzi. Semplici ragazzi, tra i più attivi e rivoluzionari. Questo gruppo di studenti prende il potere sotto la guida di un leader sconosciuto, il mullah Omar.
Ecco, soffermiamoci un attimo sul Mullah Omar. Se n’è sempre parlato a mezza voce, come di un’ombra di terrore, un demone pashtun, che durante un agguato fu colpito da una pallottola all’occhio destro e se lo cavò e ricucì da solo.
Era proprio così come lo ha descritto: un demone con un solo occhio, un rozzo impresario del Male.
Dopo la caduta dell’ultimo presidente della Repubblica Democratica, il dottor Najibullah la sua famiglia si trasferisce a Maimana...
Ho visto da vicino la morte del presidente. I talebani l’hanno prelevato presso il Palazzo dell’Onu dove si era rifugiato. L’hanno torturato, evirato, trascinato con una jeep e poi freddato con un colpo alla testa. Ero con mio fratello, ho visto tutto.
È il 1997. Lei ha undici anni, l’Afghanistan da un anno è nelle mani dei talebani (lo sarà fino al 2001), tranne alcuni territori governati dall’Alleanza del Nord, cioè dai mujaheddin. È qui che ancora una volta la storia entra nelle mura di casa sua perché i talebani arrestano suo padre...
Sì, viene arrestato e condotto presso il carcere privato del Mullah Omar, in Kandahar. I miei fratelli scappano e mia madre mi porta in una zona povera, in incognito, dove non potevo rivelare di essere figlio del potente generale Qasim. Fingevamo di essere poveri. Non potevamo, ci avrebbero tagliato la testa in quanto familiari di un mujaheddin!
E in questo periodo lei vive come un normale afghano al tempo dei talebani e cioè assistendo alle atrocità che questi studenti improvvisati al potere...
I miei occhi ne hanno viste tante, troppe. Gli stadi fungevano da teatro di esecuzione: ai ladri tagliavano le mani, a chi osava bere alcol davano 120 frustate e al secondo tentativo gli tagliavano la testa. Alle adultere spettava la lapidazione pubblica. Il popolo doveva vedere, applaudire alle repressioni, abituarsi all’odore del sangue. Per strada non era difficile vedere mucchi di cadaveri...
E lei è un ragazzino di undici anni più o meno e si gode lo spettacolo insieme agli altri...
Certo, nelle scuole coraniche ci dicevano che assistere a questi spettacoli di morte era un mezzo di espiazione dei peccati, serviva a guadagnarsi il perdono di Dio. Eravamo tanti e andavamo a vedere tagliare teste e uccidere a sassate le donne che avevano amato un uomo diverso da quello che le avevano imposto. Noi non conoscevamo un altro mondo. Per noi era normale.
Sua madre sapeva che a lei piaceva andare a veder cadere le mani, i piedi, le cervella, le teste dei peccatori?
Andavo di nascosto, la mamma non sapeva nulla. A mia madre, però, qualcosa lo accennavo: dicevo che anch’io da grande avrei voluto servire la giustizia di Dio frustando le donne indegne! E mia madre mi diceva sempre: figlio, e se fossi io quella donna? Guarda i figli che piangono, pensa a me e a te, pensa a me e a te al loro posto.
Cercava di insegnarle un sentimento che il suo mondo disconosceva, la pietà...
La pietà, esattamente, la pietà. Sa quando ho imparato davvero la pietà. Un giorno che ho visto scaricare allo stadio una donna coperta da un burqa, accompagnata dal marito e dai figli. I bambini piangevano volevano baciare la madre, ma non gliel’hanno permesso. L’hanno portata al centro dello stadio e l’hanno uccisa a pietrate.
Farhad ha un momento di vaghezza. Rimane in silenzio per qualche secondo, fino a quando la cameriera non ci serve il caffè. Ne approfitto per cambiare discorso...
Farhad, è il 1999 e i giornali di mezzo mondo battono una notizia che la riguarda. Il generale Qassim, suo padre, riesce ad evadere dal carcere del Mullah Omar in Kandahar. I servizi segreti russi e iraniani, riescono a trasferire tutta la sua famiglia in Iran. E lì, diciamocelo francamente, fa la vita del pariolino, del fighetto con la puzza sotto al naso...
I russi avevano cambiato gioco, avevano iniziato a sostenere chi li aveva messi alle porte dell’Afghanistan, cioè i mujaheddin. E così ci trasferiamo in Iran. Vivevamo nel lusso, ville, macchine... Pensi che ad un mio amico la madre faceva fare il bagno in una vasca piena di latte.
E lei invece non era un figlio di papà? Non le piaceva fare lo spaccone in giro?
Certo, certo. Avevo una macchina da 180.000 dollari. Una volta un mio amico, figlio di un potente mujaheddin, fu arrestato e subito rilasciato essendo un classico figlio di... Ho sentito dire a suo padre: ti ho messo un milione di euro sul conto, hai il passaporto politico, vai dove vuoi e fai cosa vuoi, drogati, ubriacati, l’importante è che tu non lo faccia qui in Iran.
Insomma lei racconta di un fondamentalismo diverso da come ce lo aspettiamo noi. Racconta storie di spicciola ipocrisia borghese...
È questo il vero volto dei fondamentalisti. Io sono nato e cresciuto nel fondamentalismo. Ipocrisia e assenza di Dio... Non rigore e devozione! I fondamentalisti sono tutti dei senza Dio! Degli affaristi!
Farhad, quando inizia l’operazione americana “Enduring Freedom” va le a dire “Libertà duratura”, nel 2002, dopo l’11 settembre e la sciagura delle torri, voi tornate a Kabul...
Quel nome mi fa ridere... Libertà duratura... Libertà duratura!
Ha un altro nome, forse?
No, no, ma mi fa ridere, quando non mi ritorce lo stomaco... La parola freedom mi fa sempre uno strano effetto. Gli americani sanno benissimo quanto poco centri la libertà. Per i loro interessi, indipendenti dall’11 settembre, gli americani cambiano di nuovo gioco. Dopo aver indebolito i mujaheddin per dare il potere ai talebani, puntano sui mujaheddin per liberarsi dai talebani. Perciò, io, figlio dimujaheddin torno in Afghanistan con mio padre. Ma i mujaheddin erano dei criminali di guerra. E’ come chiedere ai lupi di difendere gli agnelli!
Nel 2005 arriva in Italia, a Roma, perché suo padre inizia a lavorare per l’ambasciata afghana... L’anno dopo, per volontà della sua famiglia, che la vuole soldato di lignaggio, come suo padre, inizia a studiare presso l’Accademia militare di Modena...
Mio padre è andato in Italia perché era sempre nelle mire dei talebani, c’erano stati tentativi di attentati. Così la promozione come addetto della difesa in ambasciata fu un modo per allontanarlo. Noi lo abbiamo raggiunto poco dopo.
E lei che è cresciuto nel fondamentalismo, quando è arrivato a Fiumicino e ha visto leggings, bikini, fidanzati che limonavano, tatuaggi, uomini vestiti da donna con le tette rifatte, cos’ha pensato?
Ho pensato che volevo vedervi tutti morti. Non avevo mai visto così da vicino gli infedeli. Chiedevo ad Allah la forza e il coraggio di uccidervi tutti per conquistare il paradiso. E sputavo dopo avervi incrociati.
E quand’è che smette di sputare e comincia a parlare di dialogo interreligioso, di amore e fratellanza universale?
Quando un mio amico ha deciso di ospitarmi a casa. Nel 2008, a Pasqua, io di solito passavo le feste in Afghanistan. Ne approfittavo per andare a festeggiare con alcol, droga nel mio Paese. Figurarsi se rimanevo in mezzo agli infedeli. Però, il mio amico mi chiede di andare a casa sua. Quando sono arrivato a casa loro, ho visto che la madre aveva apparecchiato la tavola senza il vino. Pensai: guardali, fanno i buoni, ma hanno una sola ambizione: battezzarmi. Di notte, toglievo la croce dalla parete e la mettevo sotto il letto...
E non era sorpreso dell’ospitalità di questa famiglia di infedeli, che osavano addirittura rispettare la sua religione ed evitare di bere vino in sua presenza?
Infatti! Dicevo, ma perché? Qui qualcosa mi puzza. Poi, un giorno mi sono ammalato. Avevo la febbre, stavo male. La madre del mio amico entra silenziosamente nella stanza. Erano le tre del mattino. Facevo finta di dormire e la sorvegliavo con le palpebre socchiuse. Mi aspettavo chissà cosa, invece, mi ha accarezzato la testa. Tutto qui, mi ha accarezzato la testa, come faceva la mia mamma. Non riuscivo a crederci!
Nella sua vita sono sempre state le donne a insegnarle ad essere uomo, mi pare.
Nel cuore di ogni uomo, anche quando è annerito dalle peggiori brutalità, si conserva un angolo, un punto bianco che è la memoria del bene. Queste donne sanno come ricordarcelo. Mi creda, non faccio della poesia.
Gli uomini sono cattivi perché non sanno di essere buoni, Farhad?
Credo di sì. Anzi, sono sicuro di sì.
E quella ferita di Kalashnikov sulla spalla sinistra è un altro passaggio obbligato della sua storia...
Ehm già, vede, andavo sempre in vacanza in Afghanistan, come le dicevo. La mia famiglia era sempre protetta dalla scorta ed io ero andato a trovare mia zia con due guardie. Era il 2011. Un agguato talebano. Hanno fatto fuoco sull’auto e sono rimasto ferito. Mi hanno portato in una caserma americana, hanno estratto il proiettile e poi mi hanno mandato per otto mesi a Dubai per curarmi.
E da allora, riflette su sé stesso, sulla sua vita, butta via i gradi, depone le armi. Per la rivista cattolica Tempi ha scritto un Te Deum, un antico inno cristiano che di solito si canta a capodanno, all’unico Dio di tutti i popoli della terra. Sulla rivista spagnola Huellas hoaddirittura trovato un suo elogio di don Giussani... Le piace Comunione e Liberazione, Farhad? Rischia di passare da un fondamentalismo all’altro, lo sa, Farhad?
Ma guardi io ho elogiato don Giussani, a me non interessa cosa fanno i ciellini. Apprezzo la pedagogia di don Giussani, la sua attenzione all’educazione, soprattutto dei giovani. Ho imparato davvero ad essere islamico e misericordioso come Misericordioso è Allah grazie ad alcuni cristiani tra i quali don Giussani.
Ma perché lei dice che i cattolici possono insegnare ai mussulmani qualcosa che ancora non sanno sul corretto atteggiamento di fede?
Perché ciò che oggi vive l’Islam è già nell’esperienza storica dei cattolici. I cattolici l’hanno già vissuto e hanno capito che la violenza non ha nulla a che fare con Dio. I cattolici hanno un papa, un capo spirituale che ha l’ultima parola sia in materia politica che dottrinale. L’islam è frammentato, non ha un leader riconosciuto che possa cambiare, migliorare, aggiornare...
Davide Brullo del Giornale ha recensito molto positivamente la sua autobiografia, L’ultimo lenzuolo bianco. Ha detto che è un grido all’Occidente a prendere coscienza di essere in guerra. È d’accordo con lui o ha travisato? Siamo in guerra?
Sono d’accordo con lui. Ma l’Occidente non è in guerra con l’islam, ma con sé stesso. Si sta logorando perché ha cancellato Dio dal suo vocabolario. È il vuoto che fa paura, la perdita dell’identità e dei valori che fanno paura. Riforme strampalate in nome della libertà come il matrimonio tra uomo e uomo... Questa non è libertà. È questo il campo fertile del terrorismo. Il vuoto, l’assenza di Dio e della sua Morale.
Senta perché ha sentito la necessità di abbandonare le armi? Il suo Corano e persino la Bibbia sono pieni di riferimenti alla guerra. Abramo e il suo esercito contro il re Elam, le guerre di Saul... Persino il buon Salomone aveva un esercito permanente. Perché lei ha smesso di essere un soldato?
Perché stavo combattendo una guerra ingiusta. È giusto combattere, è nobile essere un soldato, ma mai per una guerra ingiusta, per un doppio gioco di interessi che mi vedeva dalla parte di chi con una mano portava la democrazia nel mio Paese e con l’altra affidava il potere ai criminali di turno. No, questo modo di essere soldato oggi mi disonorerebbe!
Farhad, lei non può tornare nel suo Paese, sulla sua testa pende una fatwa, una condanna a morte da parte dei talebani...
Oltretutto non potrei rientrare perché sono in asilo politico e per legge non potrei comunque... Ma mi manca, mi manca molto.
Oggi si parla poco di Afghanistan, l’attenzione si è spostata su Iraq, Libia, sul Mediterraneo. La missione Isaf è diventata No combat, la presenza americana è stata ridotta a 7000 unità. Gli italiani sono 1037. Il 10 % è ancora in mano ai talebani. Lei ha ancora qualche speranza per il suo Paese?
Prego molto per il mio Paese, non posso dire che l’Afghanistan sia un Paese in cui le soluzioni si danno a breve termine. Il percorso è lungo e faticoso. La mia speranza non è nell’aiuto esterno dei signori della guerra, no. La mia speranza è sempre in quel puntino bianco che so abitare nel cuore di ogni uomo. Lì è la mia speranza.
La sua famiglia come ha preso il suo cambiamento, il fatto che oggi tiene più di cento conferenze l’anno sulla vita della sua famiglia, sui mujaheddin, sul dialogo?
Mio padre e i miei fratelli non mi parlano, purtroppo. Non li sento da un bel po’.
È per via della sua rinuncia ai gradi?
Anche. Mio padre era orgoglioso che fossi un soldato. Ma io mi sono fatto l’idea che si tengano a distanza per proteggermi. Ho raccontato troppi particolari sui mujaheddin...
E sua madre e le sue sorelle...
Loro no. Le mie sorelle e mia madre pregano per me, mi sostengono e sono orgogliose di ciò che faccio e dello sforzo di cambiamento. Loro sanno più di me a quale violenza ci hanno costretti.
Lo sa che deve molto alle donne, Farhad? A proposito, porti le mie scuse alla giornalista iraniana, si ricordi.