Perche' vedere The Last Dance

Su Netflix la docuserie che è un inno allo sport. Il mito dei Chicago Bulls

    di Mario Vittorio D'Aquino

The Last Dance. Sono queste le tre parole scritte a caratteri cubitali da un coach nella sua – già annunciata – ultima stagione negli spogliatoi di una squadra. L’artefice della scritta era Phil Jackson, un allenatore sui generis, il cui approccio zen e filosofico era riuscito ad entrare nella mente dei suoi giocatori, forse uno dei più grandi di sempre. La squadra era il Chicago Bulls capitanata dal mito del basket Michael Jordan. Correva l’anno 1998 e i Bulls tentavano di vincere il loro sesto titolo in otto stagioni, un record. Eccovi presentato lo scenario d’apertura della docu-serie che prende il nome da quelle famose tre parole scritte in gesso su una lavagna e che intende raccontare l’ultima eroica – e quindi inevitabilmente anche romantica – stagione del glorioso team di Chicago. Il materiale utilizzato dalla casa produttrice californiana, Netflix, è un inedito registrato in quel tempo, un’opportunità esclusiva per chi ama le storie di sport a sapore di fiaba, da gustarsi in dieci puntate.

Quando si pensa al basket viene immediatamente in mente la figura di un uomo che salta a gambe divaricate in procinto di schiacciare come un angelo verso il canestro, in un moto ascetico verso la gloria, verso la vittoria ad ogni costo. Quell’immagine stampata nei nostri occhi e nelle scarpe Nike che prendono il suo nome è quello di Michael “Air” Jordan, la stella (mai) cadente di questo sport. Ma i raggiungimenti dei Chicago Bulls non furono solo suoi: Scottie Pippen, Dennis Rodman e tanti altri furono tutti protagonisti del ciclo vincente, intervistati anch’essi nella serie.

The Last Dance è un inno allo sport, alle gioie ad esso legate ma anche ai sacrifici fatti per arrivare a livelli top. Raccontata a mo’ di flashback e flashforward sempre puntuali che danno il là per introdurre i tanti personaggi secondari che hanno reso gloria e onore al fenomeno Jordan e alla squadra di Chicago. A mancare all’appello è il dirigente Jerry Krause (venuto a mancare nel 2003), l’artefice del grande giocattolo, capace di comporre un team leggendario, ma è lo stesso che ha distrutto la sua creatura poiché convinto di aver raggiunto risultati ben oltre l’immaginabile. Krause per addetti ai lavori e tifosi è ritenuto responsabile di aver chiuso precocemente il sipario dell’ultimo ballo.

E’il racconto di una Cenerentola, com’era negli anni ’80 la squadra di Chicago, che per effetto magico diventa la principessa più desiderata della franchigia, della quale anche le sorellastre Detroit Pistons e Utah Jazz poco hanno potuto quando il fiore dei Bulls è sbocciato. The Last Dance è anche il ritorno in terra del più bello tra gli dei che intende togliersi – semmai ce ne fosse bisogno – dei sassolini dalle scarpe ma anche per riconoscere i suoi errori volti sempre per il bene di quello che stava facendo. Vediamo infatti un Jordan e un Michael nel corso della docu-serie, diviso in quel limbo tra la leggenda con la maglia 23 e un uomo con le sue fragilità. Essere compagno di squadra di Jordan voleva dire diventare un gregario, era lui che la gente voleva vedere ed era per lui che pagavano i biglietti e spesso pretendeva molto dai suoi compagni che non sempre lo hanno compreso. Come pochi altri sportivi, Mohamed Alì o Maradona su tutti, MJ è riuscito ad entrare nel cuore di tutti cambiando il significato di questo sport e venendo celebrato nei quattro angoli del globo. Perché nella pallacanestro c’è un periodo pre Jordan e uno post Jordan, senza voler troppo mischiare il sacro col profano.





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