Riccardo Donna, asso di 'Cuori'

Intervista al regista, che ha iniziato come cantautore, tra i più ricercati per le serie tv

    di Daniele Vargiu

In esclusiva per Iuppiternews abbiamo intervistato il regista Riccardo Donna. Nato a Torino il 12 settembre del 1954, prima di intraprendere l’attuale attività di regista ha svolto quella di cantautore, incontrato con la Drums, casa discografica italiana attiva tra i primi anni settanta e gli anni novanta, pubblicando negli anni 80 l’album “Whisky e Coca”. Inizia l’attività di regista collaborando con la RAI di Torino. Tra il 1981 e il 1998 cura la regia di numerosi concerti e spettacoli televisivi quali il concerto di Siracusa di Dalla e Morandi, Domenica in, l’Eurovision Song Contest del 1991 tenutosi a Roma. Dal 1998 passa dietro la macchina da presa come regista di cinema e fiction televisive. Cura la regia delle prime due stagioni di “Un medico in famiglia”, la prima e seconda stagione di “Nebbie e delitti, la serie Raccontami, “C’era una volta Studio Uno”, Io sono Mia, “La strada di casa”. Sul grande schermo esordisce nel 2009 con la regia di “Questo piccolo grande amore”. L’ultima regia che vede impegnato Riccardo Donna anche come produttore, è la fiction “Cuori”, in onda su RAI UNO dallo scorso 17 ottobre, protagonisti gli attori Pilar Fogliati, Daniele Pecci e Matteo Martari. La serie televisiva di gran successo si concluderà domenica 28 novembre.

Tu sei nato come cantautore. In quale modo il cinema si è legato alla musica?

“È un po' casuale. Io da ragazzo sognavo di fare la rockstar. Successivamente le cose sono andate diversamente: nel ‘77 a Torino aprirono le prime tv private e io andai a cercare lavoro come chitarrista, ma mi proposero di fare l’assistente operatore e dopo un anno ho cominciato a fare il regista. Per un po' ho mantenuto la passione per la musica ma piano, piano, il cinema mi ha travolto”.

Come ti sei avvicinato al settore del cinema?

“Mi sono avvicinato al settore del cinema nei tardi anni settanta casualmente. Io ho studiato architettura e non c’entrava granché col mio mestiere. Poi questa cosa della regia piano, piano, mi ha travolto e sono diventato un professionista sul campo. Inizialmente ho fatto la regia un po' a tutto: radio, telenovela e varietà. Negli anni 90 sono stato rapito dal varietà e sono stato il regista di Pippo Baudo, di Arbore e di Gianni Morandi. Sembrava che dovessi continuare su quella strada e invece poi improvvisamente è ritornato il cinema con l’offerta di fare “Un medico in famiglia”, che si è confermato un successo strepitoso e da quel momento mi sono occupato soltanto di cinema e fiction”.

Sei il regista di alcune delle più belle storie che la RAI ci ha raccontato, da “Questo piccolo grande amore”, “Al posto suo”, “Io sono Mia”, “Un passo dal cielo 2”, e la seconda stagione di “Non dirlo al mio capo”. Come fai a capire se una storia riesce a far emozionare i telespettatori?

“Io ci provo, il mio lavoro è proprio quello. Io scrivo con le immagini e con la musica. È una forma di racconto. Se non sapessi raccontare con questo mezzo vuol dire che devo cambiare mestiere”.

In queste settimane sta andando in onda su RAI UNO, la fiction “Cuori”. Come è nata l’idea di fare questa serie tv?

“Onestamente non è partita da me. Mi hanno chiamato con l’intenzione di farla già da qualche anno. Volevano realizzare una storia che raccontasse le avventure del reparto di cardiochirurgia   dell’ospedale Molinette di Torino, che negli anni 50/60 era un’eccellenza ed era in competizione con il resto del mondo per fare il primo trapianto di cuore. Da lì a farlo diventare “Cuori”, ossia la storia che vedete in televisione ci è passato ancora molto tempo. In seguito sono subentrato io e l’abbiamo trasformata in una storia molto romantica e seriamente narrante la medicina di quegli anni. Con vari consulenti abbiamo fatto una seria ricostruzione di che cosa era in quegli anni un enorme ospedale a Torino e questo è il risultato. Ma alla fine è un affresco di quegli anni. Ed è soprattutto una grande storia d’amore”.

Nonostante i passi avanti fatti nell’ambito tecnologico, il nostro paese ai tempi era ancora molto arretrato nel campo sociale dei diritti individuali. Le discriminazioni di genere erano all’ordine del giorno e la donna in ruoli di potere era vista con sospetto e diffidenza e questo lo possiamo notare con la figura di Delia (personaggio interpretato da Pilar Fogliati).  Con quale criterio l’ha ritenuta adatta al ruolo?

“Mi sembrava che Pilar incarnasse nel modo migliore la ragazza dirompente e alternativa che serviva a sconquassare il mondo degli uomini degli anni 60. Non è stata la prima scelta, nel senso che abbiamo visto tantissime ragazze. Però, quando è arrivata Pilar ho capito che non c’era partita e che doveva essere lei, perché porta quella carica, quell’energia che poi è anche quella stessa della persona. Oltre che essere una grande attrice, lei porta una forza di donna alternativa. Io sapevo che sarebbe stata giusta”.

Nell’ultima puntata andata in onda martedì mi ha colpito il racconto finale, espresso attraverso la telecamera. Cosa avete voluto trasmettere?

“Ti spiego. Io ho deciso e credo che sia la prima volta che si fa nella televisione generalista di non mettere i titoli di testa all’inizio ma in coda. Volevo che il prodotto “Cuori” fosse pronto per le app. Quindi, gli episodi li ho tutti separati. Anche se la Rai ne manda in onda due… io ho fatto sì che fossero due episodi nettamente separati. Se vai su Rai Play puoi approfondire questo aspetto. È come se fosse su Netflix. E allora quale era il problema che avevo? Di solito i titoli di coda vengono sfumati in televisione e per aggirare questo ostacolo ho girato una scena in più che avrebbe contenuto i titoli di testa”. Ho dovuto inventarmi ogni volta una cosa che tenesse attaccati i telespettatori a vedersi i titoli”.

Da dove nasce la scelta di girare a Torino e ambientare la fiction negli anni sessanta?

“L’idea nasce dalla storia cioè dalla verità. Fin dal 1950 e per tutti gli anni 60, all’ospedale le Molinette di Torino il professor Dogliotti creò questo reparto di cardiochirurgia che divenne un’eccellenza mondiale. Ed è proprio lì che inventarono il cuore artificiale. Lo strumento che oggi permette di fare facilmente il trapianto di cuore.  Persero la corsa al traguardo perché la vinse Barnard, ma furono dei pionieri molto importanti. Questo è il motivo per cui Cuori è ambientato a Torino nel 1967… Appunto tre mesi prima che Barnard a Città del Capo facesse il primo trapianto di cuore”.

Quale è un aspetto fondamentale della regia?

“Non ci sono aspetti differenti. La regia è tutto. Senza gli attori io non vado da nessuna parte… ma gli attori senza di me anche. Nel cinema tutto funziona se lo consideri un mestiere piramidale. Cioè al vertice c’è una punta dove ci sta il regista che decide alla fine tutto o quasi e se ne assume le responsabilità. Più allarghi quella punta, più persone ci sono che mettono bocca, più è complicato e può risentirne il risultato finale. Io penso che l’aspetto più interessante di fare il regista è che invento un mondo e lo racconto e per forza di cose uso dei collaboratori di cui mi fido e che fanno bene il loro mestiere. Però, in ultima analisi sono io che decido”.

Il cinema italiano negli ultimi anni sembrava avesse preso una fase di risalita, sia per sceneggiature più consistenti, più attenzione alla fase direttiva, una qualità più ricercata del “prodotto” preferita all’insulsa quantità. Poi lo stop dovuto al Coronavirus. Concorda con questo pensiero?

“Per assurdo la pandemia ha creato un momento di stop terrificante dal quale siamo ripartiti molto più forti di prima. Parlo del mondo del cinema. La mia personale opinione è che la pandemia ha portato alcuni cambiamenti: ha abituato la gente a stare maggiormente in casa, ha fatto conoscere il sistema di vedersi la televisione con le app, ha svuotato il pubblico delle televisioni generaliste e questo sicuramente è stato un acceleratore portato dalla crisi sanitaria. E poi ritengo che ci sia stato un netto sorpasso da parte della televisione nei confronti del cinema. Ormai la televisione è il luogo nel quale si sperimenta di più. Le serie sono più alternative rispetto al cinema che diventa a sua volta buono o interessante quando si tratta di un evento. Quel piccolo cinema che malgrado tutto continua a venir fatto… spesso non è all’altezza delle serie televisive”.

E quindi il cinema italiano in cosa dovrebbe migliorarsi?

“Ma non lo so. Se avessi la ricetta lo farei… la mia sensazione è che si raccontino sempre le stesse storie, molto autoreferenziali, Penso che la ricerca del risultato economico spesso porti a fare lo stesso tipo di film, a fare molte commedie, a fare poco cinema di genere. La televisione se lo può permettere”.

C’è un film che ha visto di cui ha pensato: “Avrei voluto girarlo io”.?

“Beh duemila. Troppi. Prendendone in considerazione uno fai un’ingiustizia agli altri mille. Io faccio quello che posso e mi muovo in un mercato con budget bassi. Vedo dei film e penso… certo questi fanno proprio un altro mestiere. Però, anche il cinema americano da Spielberg a Scott mi lascia senza parole. Ma anche in Italia abbiamo dei grandi maestri. Secondo me Sorrentino fa delle cose eccellenti e soprattutto è bravo a ottenerle e lottare. Fare certe cose vuole dire avere anche una grandissima tenacia, saper aspettare magari anni prima che il tuo progetto parta. In questo riconosco a molti miei colleghi di essere stati più tenaci nel fare la cosa che volevano e non fare la cosa che gli offrivano. Ho cambiato un po' la risposta perché non voglio dirti esattamente quale è il mio film preferito perché non c’è”.

Entrare nel mondo del cinema nel nostro paese è ancora un privilegio per pochi e per raccomandati?

“Entrare nel mondo del cinema è un privilegio, ma non solo per i raccomandati. I raccomandati ci stanno come in tutti i campi, il cinema non fa eccezione. Il consiglio che posso dare, è che per entrare nel mondo del cinema bisogna studiare, ci sono scuole eccellenti in Italia e nel Mondo… che comunque ti mettono in condizioni di avere i requisiti per questo mestiere cosi ambito. Ovviamente il talento rimane una condizione essenziale”.

Cosa cerca lei in un attore?

“In questa domanda vorrei risponderti in modo molto cattivo… Cioè, che in un attore cerco che sia bravo, sensibile, preparato e che soprattutto, non rompa troppo le scatole…”

Quali tematiche vorrebbe raccontare prossimamente?

“Prossimamente mi aspetta un’avventura molto complicata. Talmente complessa che ancora adesso, a poco più di due mesi dall’inizio delle riprese, non sappiamo se riusciremo realmente a farcela a iniziare a girare. L’avventura si intitolerà Blackout. Racconta la storia di un gruppo di persone, in una valle in montagna piena di neve, che a causa di un terremoto e della conseguente enorme slavina… rimangono bloccati lì, e devono organizzarsi per sopravvivere. Un genere molto diverso da Cuori... ma non completamente… perché anche lì, nel freddo della montagna, l’amore avrà la meglio su tutto”.





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