Incerti, una Napoli non credibile

Al cinema La parrucchiera: un film che non dice nulla di nuovo

    di Maria Regina De Luca

Uscito da pochi giorni nelle sale l’ultimo film di Stefano Incerti, "La parrucchiera" ha incontrato il favore quasi incondizionato del pubblico e della critica. Quest’ultima ha sottolineato l’efficace e veritiero spaccato di Napoli, della "vera e autentica" Napoli, che il regista presenta nel film. E in effetti una Napoli buia, dai muri erosi, dalle porte nere, dove perfino gli altarini non sono tali è quella dove il regista alloca il salone della parrucchiera, la sua casa e molte delle scene all’aperto, quasi come cifra identitaria della città dove, secondo la trama, la donna vince le sfide contro la società e il maschio prevaricatore per trionfare sulle sorti avverse, e vince. Amen. Peccato che tutto ciò sia stato già detto in migliaia di film, di scritti, di saggi, di conferenze e, passando per un certo Ibsen, dalla storia stessa del mondo. Ma, soprattutto, peccato che questa bella ragazza, non si capisce in nome di quale presunta "autenticità" truccata malissimo e pettinata peggio da divenire spesso grottesca, nonostante il suo valore di riscattatrice di se stessa e della sua sorte si rassegni a dormire, insieme al figlio, in una casa dalle pareti sbrecciate, prive d’intonaco, e che la sua base d’azione siano vicoli scuri, una sorta di basso porto non meglio identificato. Soprattutto è difficilmente credibile che questa donna, alla quale il regista affida la bandiera del riscatto della donna e delle sue sorelle, tutte figlie di un dio minore come lei, abbia un tale pessimo gusto nel vestire e nell’addobbare il tanto desiderato salone, le collaboratrici e il suo stesso volto, stravolto da un trucco greve e sensoso.

Lo scopo, francamente, ci sfugge. Il brutto come simbolo di idee e ideali ci sembrava avesse fatto il suo corso, e il grottesco pure. Non sembra inoltre che ciò dia al film maggiore scatto e spessore narrativo, tutt’altro, ma che ne renda più grevi le tematiche già gravose e gravanti per loro conto. Perché, dallo scorrere delle immagini e della storia, latita la leggerezza, quella leggerezza che rende i film di Almodovar capolavori nei quali il regista mette in discussione quanto narra e se stesso, con quel grano d’ironia che non può mancare in storie come questa che la marcatura degli eccessi rende inverosimilmente contraddittoria. Forse si potrebbe confrontare questo film con "Le fate ignoranti", dove un casamento popolare frequentato da un campionario di varia umanità, che non ha niente da invidiare a quello de "La parrucchiera", è narrato con quel tocco di grazia che rende possibile ogni soluzione, perfino la più paradossale, inducendo lo spettatore a credervi, e a sperare che si avveri.

Tornando alla città dove il film è ambientato, e che non ha nessun connotato identificativo se non lo squallore, ci limitiamo a chiedere che male abbia fatto Napoli per venir denudata con compiaciuta oscenità proprio da quanti dovrebbero metterne in risalto le poche, stentate, soffocate luci di speranza ancora alimentate dai pochi uomini di buona volontà sopravvissuti. Il premeditato nascondere accuratamente ogni "refola" di quella straripante bellezza della città che non è riscatto, anzi, al contrario, è la sua vera colpa, il doloroso rafforzamento della sua caduta, ma "esiste" (e non vale nasconderla se non in nome di chi sa quale elucubrazione metaforica), è veramente incomprensibile perché, se veramente la città fosse come quella de "La parrucchiera", non si capirebbe da dove le donne sull’orlo di una crisi di autoidentificazione abbiano potuto attingere forze ed energia vitale: non certo da quelle vie scure, tra quei muri scrostati, in quelle case senza intonaco, in una città buia, dove sarebbe ovvio chiedersi se valga o meno la pena di sopravvivere. Le protagoniste esprimono la loro bravura malgrado i travestimenti tra il clown e la passeggiatrice. Ma forse, dato il coro di elogi che il film ha suscitato, siamo qui in errore, fuori tempo e fuori luogo, ma ci concediamo un ultimo interrogativo: la formaldeide vuol essere una citazione della camorra che la vende, della disonestà insita nel napoletano che per guadagno è disposto a uccidere o della profonda contraddittorietà dell’animo umano che cerca il riscatto esistenziale e continua ad essere un potenziale assassino, pentendosi solo in extremis? E il riscatto della città, del quale parte della critica ha parlato come di uno dei tanti meriti del film, si ottiene lasciando che un crimine come quello compiuto dal mancato enfant prodige passi sotto rassegnato silenzio-assenso della danneggiata diretta e di quanti la circondano? Quanto poi al "lieto" fine, la fretta è cattiva consigliera. Il resto è silenzio.





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