Quando giocavamo a Mazza e pivizo

I divertimenti di una volta spiegati ai miei nipotini

    di Amedeo Forastiere

Spesso vado alla reggia di Capodimonte. Mia figlia abita proprio di fronte, quando le faccio visita, un giro nel parco non manca mai. Ha due bambini, mia figlia Marianna, Alessandro dodici anni ed Elena dieci. Il nuovo direttore al Museo di Capodimonte, il francese Sylvain Bellenger, da quando è arrivato ha rivalutato lo storico parco, voluto da Re Carlo di Borbone, nel 1738, come residenza estiva e riserva di caccia. Il bosco fitto di secolari alberi, circonda tutta la reggia, ogni volta che ci ritorno, mi riporta alla mia adolescenza, quando marinavo la scuola, con qualche ragazza andavamo al bosco, lontano da occhi indiscreti e spioni, per sbaciucchiarci un po’ (allora già era tanto).

Bisogna riconoscere che Bellenger ha rivalutato non solo il museo, ma soprattutto il parco trascurato. Viali puliti, prati curati, la fontana finalmente restaurata. Veramente piacevoli oggi  girare per il Bosco. Un giorno, mi trovavo con mia figlia e i nipotini, quando a un certo momento, guardando la perfezione dei viali senza una buca nemmeno una crepa, rivolgendomi a mia nipote le dico: “Questi viali sono perfetti per giocare a, mazza e pivizo”. Mi guarda basita, ma non mi fa nessuna domanda, perché vuole capire da sola il significato di quella parola tanto strana, di un gioco misterioso. Poi mi fissa con sospetto, pensando che io le abbia fatto una delle mie solite battute, per farla ridere. Mia nipote Elena, è un vero personaggio, già a otto anni ha iniziato a fare teatro, affrontando il pubblico. Con sguardo scrutatore vuole capire, poi si arrende, mi domanda: Nonno cos’è questo gioco strano, me lo spieghi?

Mazza ‘e pivezo, è il nome in dialetto napoletano, ma in italiano si chiama Lippa. E’ un gioco popolare antichissimo, diffuso dal Mediterraneo occidentale all’India forse arrivato in Europa nel XV secolo. Viene considerato alla stregua di uno sport popolare e periodicamente se ne disputano tornei regionali. Il termine Lippa viene utilizzato per descrivere qualcosa di particolarmente veloce (es. andar veloce come una lippa). Noi napoletani amiamo personalizzarli certi giochi dandogli il nome in dialetto più appropriato, così la Lippa è diventata Mazza e pivezo.

Il gioco è fatto con due pezzi di legno, generalmente ricavati dai manici di una scopa, uno di circa 15 cm in lunghezza, con le due estremità appuntite chiamate ‘o pivezo, l’altro lungo circa mezzo metro ‘a mazza. La tecnica consiste nel colpire con il pezzo lungo,’a mazza, quello piccolo ‘o pivezo, sulla punta per sollevarla in aria e colpirlo con forza una seconda volta per lanciarlo  veloce, lontano il più possibile”. Mia nipote mi guarda, capisco subito cosa mi chiederà, in fatti è così. “Nonno, me lo vuoi costruire questo gioco?”

Non lo pronuncia, un po’ difficile per lei che non parla il dialetto, così la provoco: “Quale gioco?” Lei: “Nonno questo che hai detto tu, ammazza e pizzovo”. Le faccio un sorriso. “Ok, andiamo a casa, costruiamo insieme, ma anche tuo fratello deve collaborare”. Così andiamo a casa di mia figlia, ma prima le domando se ha una scopa con il manico di legno, oggi sono tutti di plastica e non va bene. Infatti, è così. In un negozietto vicino casa, quelli di una volta che vende di tutto, troviamo la scopa vecchio modello, manico in legno. Di corsa su casa a costruire mazza e pivezo. Per fortuna me la cavo bene con certi arnesi. I nipotini eccitatissimi vogliono collaborare, li lascio fare per coinvolgerli, così potranno dire agli amici che quel gioco strano lo hanno costruito loro, assieme al nonno.

La curiosità di sperimentarlo è forte, così appena ultimato, subito di corsa nei viali del Bosco. Confesso, da ragazzo non sono mai stato bravo in questo gioco. Avevo dei compagni che erano dei veri e propri campioni. Mi sento come uno scolaro che deve essere interrogato dalla professoressa, e ha paura perché non è preparato. Infatti, al primo colpo di mazza il pivezo non salta, lo stesso al secondo tentativo, poi ancora cilecca. I nipotini mi guardano, si consultano tra di loro, poi mi domandano: “Nonno possiamo provare noi? Forse abbiamo capito come si fa”. Prova per primo il maschietto, Alessandro, l’ometto di casa. Incredibile, un colpo secco con la mazza sul pivezo che salta come un grillo e subito il secondo lanciandolo lontano. Prova la nipotina Elena, anche lei un solo colpo secco, e ‘o pivezo salta, son il secondo con precisione, si perde in lontananza, e divertiti corrono a cercarlo. E’ impressionante vedere due ragazzini d’oggi, super tecnologici, i figli del tablet e internet, praticare un gioco antico, quando non esisteva ancora il televisore, il telefono era, a gettoni, per vedere un film, bisognava andare al cinematografo.

Osservo la gioia dei due nipotini, con quel gioco, che una volta era considerato dei poveri, il passatempo dei ragazzi che non avevano soldi per comprare i veri giocattoli. Mi domando: Chissà, se nelle scuole si facesse, non so un’ora alla settimana, la storia popolare del passato, di quando i ragazzi si divertivano con poco, cose semplici, ma soprattutto insegnare il nostro dialetto, riconosciuto il 24 gennaio 2014 dall’Unesco una vera lingua. Quindi se oggi parliamo in napoletano e qualcuno ci dice che “non devi parlare in dialetto” potremmo dirgli ufficialmente: Sto parlando la lingua napoletana. Dopo che il pivezo ha saltato tutti i viali della Bosco, i nipotini tornano a casa tenendo stretti nelle mani quel gioco sconosciuto e primitivo. Felici come se gli avessi regalato il più moderno e miracoloso tablet. Mazza e pivezo sono solo due pezzi di legno, semplicissimi da costruire, che sfidano il tempo. Non ha bisogno di campo di ricezione, batterie, e tutto quelle che occorre per far funzionare le tecnologie, ma sola fantasia e una mano ferma per colpire, o pivezo.





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