Sorrentino si 'svela in 'E' stata la mano di Dio'

Il nuovo film del regista partenopeo e' un inno alla sua famiglia, a Napoli e a Fellini

    di Armando De Sio

È stata la mano di Dio, il nuovo film scritto e diretto da Paolo Sorrentino, rappresenta sicuramente una svolta nel modo di fare cinema del regista napoletano. Il film si apre con un prologo surreale con un San Gennaro in Rolls Royce, che introduce la musa del film zia Patrizia simbolo supremo delle ossessioni erotiche adolescenziali del protagonista, interpretata da Luisa Ranieri, comincia il film “autobiografico”, infatti dietro la storia di Fabietto, giovane napoletano degli anni Ottanta, che sogna l’arrivo di Maradona a Napoli e che vive il suo tempo e quella città così ricca di fermenti culturali e così piena di contraddizioni c’è il nostro regista. È uno spaccato delle famiglie piccolo borghesi napoletane, con i loro vizi, le loro bizzarrie, le loro virtù, i loro piccoli grandi sogni. Con grande maestria e dettaglio, Sorrentino descrive le case napoletane, i loro soprammobili, i loro ninnoli: il barocco borbonico di casa Focale, il minimalismo borghese e un po' kitsch degli Schisa, il modernismo anni Ottanta di casa di zia Patrizia.  E inoltre: le tavolate in famiglia, i pentoloni di sugo di pomodoro, le bottiglie che vengono riempite di passata. Ma anche l’ipocrisia che si cela dietro a tutto questo, come dimostrato dalla relazione che il padre di Fabietto ha da anni e da cui è nato addirittura un figlio.  Il film è un inno al cinema, alla voglia di raccontare la realtà con gli occhi della settima arte, perché “la realtà è scadente”. Il cinema è sogno ed evasione.

Lo sapeva benissimo Fellini, il cui spirito aleggia su “È stata la mano di Dio”, già dall’ingorgo stradale della prima scena, parallelo e opposto a quello di 8 ½.  Sorrentino inoltre si confronta col suo passato attraverso la sua città, riletta e rivista attraverso l’occhio del cinema come ancora una volta aveva fatto il maestro riminese in Amarcord. Fa i conti con Napoli, dalla quale come dice il regista Antonio Capuano (interpretato da un ottimo Ciro Capano), nessuno se ne va mai davvero. Tantomeno quelli che sono andati a Roma: “ ‘e strunz!”. Per Fabio lasciare la città significa la possibilità di continuare a sognare. “Non disunirti”, gli dice Capuano di fronte alla sua rabbia e al suo dolore. E per non disunirsi Fabio va a Roma.

Nel viaggio che lo condurrà a Roma, ascolta, in quelle cuffiette da walkman che ha avuto sempre con sé per tutta la durata del film, la canzone che nei confronti di Napoli è la dichiarazione di amore più commovente, “Napule è”, l’unica canzone presente in “È stata la mano di Dio”, film di un regista in cui la musica e gli effetti sonori li ha sempre usati tanto, fino a farne una marchio di fabbrica. Arriva nel momento in cui è consapevole del proprio destino, al futuro, al sogno, con la benedizione del “munaciello” già apparso agli inizi della pellicola a zia Patrizia. Il momento in cui Fabietto si trasforma in Fabio, o sarebbe meglio dire Paolo. Un Paolo che da allora non si è mai disunito, donandoci un film bellissimo, maturo e commovente.





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