Palazzo Cellamare, dimora dei Carafa

Costruito nel XVI secolo, fu adibito a lazzaretto a metà del '600

    di Liberato Russo

Costruito agli inizi del XVI secolo come dimora di campagna dell’abate di Sant’Angelo di Atella Giovan Francesco Carafa, Palazzo Cellamare, conosciuto anche come Palazzo Francavilla, sorge sull’odierna via Chiaia, al tempo sentiero campestre ricco di orti e giardini che fecero posto a strade ed edifici in seguito al risanamento della zona voluto dal viceré don Pedro de Toledo nel 1533.

Nel 1531 fu Luigi Carafa, nipote e successore dell’abate, a renderla una dimora nobiliare fortificata, incaricando Ferdinando Manlio per il restauro completo dell’edificio secondo il gusto cinquecentesco; inoltre nel giardino venne aggiunta la fontana con gli stemmi della famiglia e di quelle ad essa imparentate. In origine l’edificio non presentava il portale barocco e i giardini, ma la struttura era pressapoco la stessa, con il giardino superiore diviso in due parti fiancheggiate dalle due ali del palazzo, mentre tracce di decorazioni della facciata restano oggi intorno alle finestre del basamento bugnato e del piano nobile.

La crescente importanza della famiglia Carafa, che ottenne nel 1522 il principato di Stigliano da Carlo V, era dovuta infatti alle numerose parentele che ne aumentavano prestigio e patrimonio: come Luigi ad esempio, che sposando Isabella Gonzaga rese il palazzo un centro di vita mondana e letteraria fregiandosi di ospiti illustri come Giovan Battista Marino, Basile e il marchese Manso. Come unica erede dello sconfinato patrimonio (considerato al tempo la prima dote d’Europa) rimase la nipote Anna Carafa, per la quale nel 1636 fu scelto come sposo il futuro vicerè don Ramiro Nuñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres. Nel XVII secolo Palazzo Cellamare fu protagonista di alcune vicende cittadine: nel 1647 venne assaltato dai rivoluzionari di Masaniello mentre nel 1656 fu adibito a lazzaretto dai monaci della vicina chiesa di Sant’Orsola in seguito alla tremenda epidemia di peste. L’ultimo erede dei Guzmán Carafa, il principe Nicola, morì nel 1689, dopodiché nel 1695 l’edificio venne confiscato e messo all’asta: il nuovo proprietario divenne Antonio Giudice, principe di Cellamare che lo acquistò per 18000 ducati. Su suo incarico nel 1726 Ferdinando Fuga decorò esternamente le facciate e realizzò l’arco d’ingresso in pietra lavica di chiara impronta barocca napoletana, con iscrizione e stemma nobiliare in marmo al di sopra della cornice. Da sottolineare inoltre il portale a linee spezzate interno all’edificio, opera di Ferdinando Sanfelice, e la pregevole cappella della Vergine del Carmelo opera di Giovan Battista Nauclerio nel 1727. Allo stesso periodo risalgono gli abbellimenti delle sale interne con l’aggiunta, ai già presenti affreschi di Luigi Romano, dei dipinti di Pietro Bardellino, Fedele Fischetti e Giacinto Diano.

Intorno al 1760, la proprietà fu data in affitto al principe di Francavilla Michele Imperiali, il quale la elevò al pari di una reggia, con gli ammodernamenti interni ed esterni (la creazione dei due giardini) eseguiti da Francesco Antonio Picchiatti, ma soprattutto organizzando sontuose feste e ricevimenti, ed ospitando l’alta nobiltà italiana oltre ai più celebri viaggiatori del tempo, tra cui Giacomo Casanova, Goethe e Caravaggio (di cui fu l’ultima dimora). Estintasi senza eredi maschi la famiglia Giudice, patrimonio e titolo vennero acquisiti nel 1787 da Francesco Caracciolo principe di Villa sposando Eleonora Giudice, figlia di Antonio. Ma solo a Restaurazione avvenuta, dopo una confisca che lo rese proprietà di Gioacchino Murat, il palazzo tornò nelle mani dei Caracciolo Giudice intorno al 1822.

Nell’ultimo secolo l’intensa urbanizzazione che ha interessato la zona ne ha progressivamente mutato la panoramica e il contesto. Dalle cave di tufo presenti al di sotto del palazzo, dalle quali si reperivamo i materiali di costruzione, è stato ricavato il cinema-teatro Metropolitan, aperto nel 1948. Ed è qui che nel 1959 morì suicida il grande matematico Renato Caccioppoli.





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