Coronavirus e il ritorno dell'attesa
Le generazioni di una volta sono abituate ad aspettare
di Amedeo Forastiere
Nessuno di noi sa quando e come finirà questo Tsunami, che ha sconvolto totalmente la vita di tutti noi. Viviamo nell’attesa. Il nostro stile di vita subirà inevitabilmente dei cambiamenti. La paura del contagio, anche quando gli esperti ci assicureranno che il mostro è stato sconfitto, resterà ancora per molto tempo. Il coronavirus però, qualcosa insegnerà, in particolare ai giovani. Insegnerà l’attesa. L’attesa per il giorno d’uscita, quella per il ritorno alla vita di prima. Io che vengo da un’altra generazione, dove l’attesa era normale, qualsiasi cosa facessimo, bisognava aspettare per vedere il risultato. Quando si andava in vacanza scattavamo sempre tante foto, ma solo al ritorno a casa dopo aver portato il rollino dal fotografo per la stampa finalmente le vedevamo. Spesso eravamo ritratti in atteggiamento buffo, perché tutto era vissuto con la gioia e la spensieratezza della vacanza. “Mannaggia, ti sei messa in controluce qui ti sei mossa ed è venuta sfocata”. “Mi hai preso d’improvviso, ma è venuta bene, sei brava”. Erano i commenti che di solito facevamo. Oggi l’attesa è cosa d’altri tempi, la foto la vediamo subito, quando non viene bene ne scattiamo immediatamente un’altra.
Chi è diventato padre negli anni prima dell’ecografia, ricorda bene l’attesa fuori la sala parto per sapere se il nuovo nato fosse maschio o femmina. Qualcuno sveniva alla notizia del figlio che desiderava. C’era un’aria di nervosismo che trasmetteva l’attesa. Si fumava come una locomotiva, anche se la suora del reparto ci rimproverava ricordandoci che non si poteva fumare. Era il rito dell’attesa. L’attesa è anche un po’ speranza, gli spagnoli dicono: Esperar. Oggi si vive nella fretta, quindi l’attesa è stata mandata in pensione. E’ cambiato anche il modo di scrivere. Dando un’occhiata ai messaggi nel telefonino di mio nipote, scopro un linguaggio totalmente sconosciuto tipo: Apta, baa, bapre, basubo, basugua, fadmccv. Cosa significa? Non l’ho domandato. Questo linguaggio nasce dall’esigenza della fretta, nemica dell’attesa, vedere le parole scritte per intero, che danno un’emozione a chi le riceve, si perde molto tempo. Questo linguaggio nuovo, è come se fosse un codice segreto da far invidia al sistema crittografico tedesco della seconda guerra “Enigma”. Veniva inviato alle truppe in avamposto. Era una macchina elettromeccanica, destinata inizialmente al mercato commerciale. Arthur Scherbis, l’inventore fece alcune modifiche per le forze armate tedesche, si rivelò un grande successo. I codici erano indecifrabili, solo pochi alti ufficiali riuscivano a decifrarli, anche perché cambiavano continuamente. Questa diabolica macchina mandò letteralmente al manicomio i servizi segreti nemici, che non riuscivano a decifrare per anticipare le mosse dei tedeschi. Però ci fu matematico britannico Alan Mathison Turing che riuscì a decifrare i codici. Riuscendo così a disarmare Enigma. Grazie a Turing, il numero delle navi affondate da parte degli U-Boot tedeschi calò esponezialmente…ma questa è un’altra storia.
Torniamo all’attesa della nascita di un figlio. Oggi grazie all’ecografia si sa tutto prima, a dispetto dell’attesa. Oltre al sesso anche il colore dei capelli e degli occhi. Possiamo avere le foto prima ancora che nasca. Non mi stupirei se un giorno; non molto lontano, alla partoriente le arrivasse un messaggio su WhatsApp. “Ciao mamma sono Francesco, nascerò domani alle 16,40, non ti emozionare”. Fantascienza? E chi lo può dire. Chiudo con un aforisma sull’attesa dello scrittore e drammaturgo francese del 1800, Jules Renard. “Se vuoi costruire la casa della felicità, ricorda la stanza più grande deve essere dell’attesa”.