Antonella Leardi, mamma Napoli

Gli ultimi 53 giorni con Ciro: «Mio figlio tifava per la città, per la sua identità»

    di Roberto Rosano

È una tiepida sera di maggio, il 3 maggio 2014. Milioni di supporter sono incollati allo schermo in attesa della finale di Coppa Italia. A contendersi la coccarda tricolore il Napoli e la Fiorentina. Tutto è pronto, anche il fischio d’inizio. Quando qualcosa attira l’attenzione di tutti. Le telecamere a coulisse muovono rapidamente verso la stessa direzione, verso un omone in maglietta nera, jeans lavaggio blu sporco, tatuaggi, sguardo truce e mascella volitiva, che spicca solitario sulle transenne della Curva Nord dell’Olimpico.

Sul petto la scritta gialla: Speziale libero. Indica, comanda, ordina, contratta. Le camere passano rapidamente sui volti impietriti delle migliaia di persone inscatolate sugli spalti. Passano su Matteo Renzi, il Premier, e sulla sua ultimogenita spaventata e in lacrime. Cosa sta accadendo? Perché quell’omone, noto al gergo di rione come Genny 'a Carogna, sta trattando e cosa sta trattando?

La tv, però, smaltisce quella domanda senza colpo ferire, per concentrarsi sulla trattativa e sul nemico pubblico ideale, che ha tutto per essere detestato: una maglietta odiosa addosso, con cui chiede la liberazione dell’assassino di un poliziotto, le physique du role da delinquente comune, la posizione assunta nel set, il background familiare e sociale, ma soprattutto il nomignolo, che è già di per sé un sottopancia efficace. La tv spinge, pressa, avvia una talkizzazione della vicenda, con i codici propri del genere: la retorica, il pedinamento dei familiari dei protagonisti, il corteo delle emozioni, la trattazione da casi umani e quelle ripugnanti domande sul perdono. Nel frattempo, dietro questa immane, luccicante quinta di teatro, un ragazzo di nome Ciro è sdraiato sotto una lampada scialitica, tra tubi di drenaggio, ferri chirurgici e bacinelle e sua madre sta pregando.

Signora Esposito, Lei di chi è figlia?

Una domanda molto, molto grande. Sono figlia del Dio altissimo, questo prima rispondo e poi dico che Dio mi ha donato un padre terreno che si chiamava Ciro, Ciro Leardi, che, negli ultimi anni della sua vita, è stato un bidello. Una persona che ci ha dato un’educazione esemplare. Mi ha insegnato tanto. Ci teneva tantissimo che noi parlassimo bene l’italiano, che imparassimo la gentilezza, il saluto. Mia mamma è stata una fortezza, invece. Mi ha insegnato l’emancipazione, però, quell’emancipazione, come dire, quell’autonomia, come dire, educata! Non è che una debba fare per forza la pazza. Purtroppo, mia mamma ha avuto una grave disabilità a trentacinque anni, a causa di un tumore tra il cervello e il cervelletto, ed ha perso tutta l’autosufficienza che aveva.

Parlando con Lei, signora, non si può non notare una serena gestione dell’emotività, che non è esattamente tipica del carattere impetuoso, vivace dei partenopei, per i quali, mi permetta, signora, ogni sfumatura della vita ha tinte decise, forti. È vero o no?

Mamma aveva la quinta elementare ed aveva perso la mamma a nove anni, ma la prendevano per un’insegnante perché aveva questo garbo, questa intelligenza… Erano persone semplici come me, però ci tenevano a queste cose. Io sono anche passionale, eh, vivo i sentimenti in una maniera piena, come tutti i napoletani, forse troppo piena, però sono abituata così, a non esternare tutto per forza.

Quando ha scoperto la fede, signora?

Forse, già da bambina mi rivolgevo a Gesù, parlavo con questo Dio che non si vede, ma che si può sentire. I miei nonni sono morti giovanissimi, io come ha potuto capire ho avuto una vita molto travagliata con mamma che anche non stava bene, due fratelli, uno più grande ed uno più piccolo. Trovarsi all’improvviso con una famiglia sulle spalle è stata dura ed io sin da bambina mi rivolgevo a questo Dio che non vedevo, scommettendo però sulla sua esistenza. Quando avevo 29 anni ha rivoluzionato la mia vita, ho avuto un incontro con questo Cristo che ha sconvolto la mia vita in maniera positiva. E come avrei potuto sostenere quello che è venuto dopo, il dolore più grande che il cuore di una donna possa vivere se non avessi affianco a me un amico speciale come Gesù. Se tu tocchi gli animali quando partoriscono, anche un cane piccolissimo ti può anche sbranare, è la natura. Là va via la gentilezza, tutto, quando ti toccano i figli. Io, una volta, in un momento durissimo, avevo 29 anni, ho aperto la Bibbia ed ho letto un brano che diceva che non si possono servire due padroni. La parola di Dio è vivente.

Ma facciamo un piccolo salto indietro. Lei sposa, prestissimo, a diciotto anni, il signor Giovanni. Sa cosa mi ha sorpreso di lui, signora? Quando l’ho chiamato avevo proposto anche a lui l’intervista, ma, senza pensarci due volte, mi ha subito dirottato su di lei. Mi ha detto: no, no, vi faccio richiamare da mia moglie, scusate, scusate. (Ridiamo).

Giovanni io l’ho sempre chiamato capobranco. Lui ama gestire il suo branco. È buono, però da questo punto di vista è molto schivo, e poi è emotivo, sensibile, soprattutto coi figli, è, come dire, un mammo, un mammo sì. È dolce, è apprensivo.

I pantaloni li porta lui, ma mi pare di aver capito che, nella storia che stiamo raccontando, Lei è la parte più forte. È così o mi sbaglio?

Sì, sì. Io non sapevo di esserlo. Pensavo che mio marito fosse la persona forte in famiglia. Io in qualsiasi momento, di notte e di giorno, se c’era il minimo problema, lo chiamavo, mi affidavo a lui. Che ne so, si rompeva la macchina, qualunque cosa, qualunque… Io ero convinta che fosse l’albero della barca, invece dopo il dolore del figlio quest’albero l’ho visto spezzarsi… (Pausa). Scusa, mi emoziona sempre un po’ parlare di mio marito. Scusa anche se ti do del tu, potresti essere mio figlio, come faccio…

Onore mio, signora. Lei, invece, ha scoperto di essere forte, è così? Quello che è debole per il mondo Dio l’ha scelto per confondere i forti…

Io non lo so chi me la dà questa forza, non è mia, non l’avevo, glielo posso garantire. Certe volte mi sorprendo di me stessa. Io sono una persona estremamente fragile. Mamma mia, mi sono sempre sentita come un fiorellino. Non avrei scommesso un centesimo sulla mia forza, eppure…

Come l’ha conosciuto Giovanni? Mi racconti com’è nata questa favilla, da cui sono nati tre figli... Insomma, una cosa importante!

Adesso, ti faccio fare una grossa risata. L’ho conosciuto nella clinica riabilitativa vicino al Parco San Paolo. Mamma andava a fare le fisioterapie a causa della disabilità che ti ho detto. Mi colpì la sua forza, mi dava molta sicurezza. Mi dava un senso di protezione. Era giovanissimo, eh, 19 anni, io 17, eravamo due ragazzini, eppure mi sembrava, sai uno di quegli uomini già fatti? Aveva questa voce calda, profonda, bella ah, ah, ah. Anche i miei figli hanno la sua voce per fortuna. Anche io adesso ce l’ho, ma non era così una volta.

Signora, la vostra è una famiglia semplice, discreta, lontana anni luce da qualsiasi aspirazione di ribalta, però il destino ha voluto che un nome scappasse via dalle pagine ben custodite del vostro album di famiglia, per divenire una specie di simbolo. Un nome finito sugli striscioni degli stadi, sui titoloni dei giornali, sui murales della città, sulla bocca dei più importanti commentatori di questo Paese. Ma chi era Ciro, signora?

Ciro era un bambino biondo, biondissimo, bellissimo. Sembrava una femmina tanto che era bello. Molto fine. Era piagnucolone, molto piagnucolone. Secondo me a causa di un ricovero che ha avuto appena nato, è stato un mese in ospedale, aveva avuto dei problemi. Un bambino quando nasce deve stare vicino alla mamma, è un fatto di natura, invece me lo tolsero e lo portarono al reparto immaturi del Policlinico, ma io andavo comunque tutti i giorni. Fino a quando non è uscito dall’ospedale non sono uscita neanche io. È nato il 23 novembre dell’1984, secondo figlio. Io ti dico proprio la verità, desideravo una figlia femmina, non avendo conosciuto le nonne, non avendo avuto una sorella, la mamma, sì, ce l’avevo, ma la malattia l’ha resa figlia mia, più di quanto io fossi figlia sua. Desideravo questa figlia, però, chiunque mi domandava io, non so perché, dicevo che ero convinta che sarebbe stato un maschio. Però sono stata molto, molto contenta quando è nato Ciro, eh! Il suo primo anno di vita però è stato da dimenticare, come dico sempre, poi però è diventato un bambino meraviglioso. Ha parlato presto.

E qual è stata la prima parola che ha detto? Sentiamo! Scommetto…

No, no, babbo. Babbo. Eh! Bel fetente! Ma secondo me per i bambini è più facile dire ba-ba che ma-ma. Tu che dici?

Può darsi. (Ridiamo). Si sarà confuso il bambino!

Dopo il primo anno di vita, Ciro è diventato un bambino d’oro, non lo dico perché sono la mamma, è proprio così. È stato un bambino sereno, tranquillo, è andato all’asilo molto presto. Quando andava il fratello più grande, andava anche lui. A due anni e mezzo, neanche forse, veniva il trenino a prenderlo e se ne andava zitto, zitto col fratello maggiore, con le mani nelle mani. Poi è cresciuto, andava a giocare le partite nel quartiere… È diventato un ragazzo giudizioso, molto. Poi era trascinante, Ciro, era molto coinvolgente. Se si doveva organizzare che so io, una partita, un viaggio, era il portabandiera. Tu pensa che a 17 anni ha fatto il suo primo viaggio a Malaga, all’estero, con gli amici. Oggi forse si usa, all’epoca no. Avrebbe fatto diciotto anni a novembre, ma io ero un po’ spaventata. Io sono anche un po’ all’antica su certe cose.

E la scuola?

Non ti nascondo che non ha preso il diploma. Si è messo in testa di lavorare e così è stato. Mio marito faceva il lavoro di pubblicitario, insegne luminose. A lui piaceva molto questo lavoro, ma gli piaceva soprattutto stare col padre. Io non volevo che lasciasse gli studi, ci sono stata molto male, però, così ha voluto. Poi abbiamo aperto un’attività qui a Scampia. Abbiamo riqualificato un’area torrida, abbandonata, fatiscente. Abbiamo fatto un autolavaggio ed un’autorimessa, tutto a gestione familiare, e i figli hanno iniziato un’attività tutti e tre. Ciro gestiva l’autolavaggio.

Parliamo un po’ del vostro rapporto, mamma e figlio… Le va?

Te lo racchiudo in due parole, tu mi capisci. Mia suocera quando Ciro era piccolino diceva: eh tu t’o puort’ appis’ nganna (tu lo porti legato al collo). Ti ho detto tutto. I figli sono amore unico, tutti. Però, con qualcuno spesso c’è un feeling particolare. Ciro era molto legato a me, sin da piccolo. Stava continuamente a cercarmi, ad abbracciarmi, a baciarmi. Io sono molto affettuosa, molto espansiva, vuommecosa, come diciamo a Napoli.

Vuommecosa? Come a dire…

Eh, cioè sdolcinata. Mamma mia, quella com’è sdolcinata, fa venire la nausea, quelle persone sai che ti fanno un po’… Un po’ girare lo stomaco. Io sono così, soprattutto coi figli. Stavamo in casa, tutti insieme, perché i miei figli non erano ancora andati via, nessuno. Fino a quattro anni fa, stavano ancora tutti qua. Ma io sono ancora così anche adesso che i miei figli sono grandi. Ciro, però, era un ragazzo molto autonomo. Non era un bamboccione. Diceva: mamma, io quest’anno me ne vado in Jamaica! E va bene. Io ero contenta, perché, se avessi potuto, anch’io avrei voluto girare mezzo mondo e se lo fanno i figli è lo stesso, no? Mi ricordo che quando stava per partire per la Jamaica, io gli stavo riempiendo la valigia e lui mi disse: guarda che a me servono gli spaghetti, i pomodori, che lì c’è il pesce a poco prezzo, un bicchere di vino e mangi divinamente! (Ride).

Io sono come Ciro, sa, penso solo a mangiare (Ridiamo).

Eh, fai bene, fai bene. Che te ne importa. Stai bene.

E il calcio quando è arrivato? Com’è arrivato?

Non gliel’abbiamo trasmessa noi genitori, questa passione. Né mio padre, né mia madre, lui è cresciuto anche con i nonni, come hai ben capito. In effetti, i miei figli stavano più a casa di mio padre, che a casa mia. Era una fusione, un’unica cosa, mi spiego? Se io avessi avuto un marito tipo quello della canzone di Rita Pavone, sai, penso che non sarebbe durata. Ciro, invece, era patito. È stato uno di quei tifosi che ha seguito il Napoli anche quando è sceso di categoria. Uno dei pochi, perché poi è facile seguire la squadra che vince sempre. Io ho scoperto che mio figlio tifava Napoli, ma soprattutto per Napoli, per la sua città. Lui amava molto la sua città, la sua identità. Non l’avrebbe mai rinnegata. Negli anni bui, quando il Napoli era sceso di categoria, molte persone l’avevano abbandonato. Lui la bandiera la teneva ancora più alta. Mi ricordo l’espressione di Ciro, giovanissimo, aveva diciotto, diciannove anni… Uno disse: ah, ma che vai a fa, chill 'o Napoli sta in serie C! Ma che te ne 'mporta? La sta ancora guardando quella persona!

Ma se qualcuno, leggendo questa nostra chiacchierata pensasse: eh, va, be’ è la mamma, sta facendo un santino come tutte le mamme farebbero… Glielo vogliamo trovare un difetto a questo ragazzo così lo facciamo un po’ sorridere se ci sta ascoltando. E se no, glielo regaliamo un difetto…

Ah ah ah, ma che ti devo dire, io non mi ricordo mai di aver fatto una questione con Ciro, mi sono sempre trovata in accordo. Che difetto gli vogliamo dare, che cosa gli possiamo regalare? Io c’ho tre figli, ogni mamma sa che ogni figlio ha un piccolo neo, no? Pasquale, il più grande, è un po’ arrogante, certe volte, è un po’ chiacchierone quando parla. È fatto così. All’incontrario di Pasquale l’altro parla poco, è taciturno, sulle sue. Purtroppo Ciro teneva un equilibrio perfetto. Taceva al momento giusto. Era una persona che, quando lavorava, non guardava in faccia a nessuno. A stento mi salutava. Questo, se vuoi, lo possiamo chiamare difetto. Ma è un difetto, boh! Tu che dici?

No, non credo. E quando ha iniziato ad andare allo stadio?

Ha iniziato col fratello più grande. Io non immaginavo che il calcio potesse riservare delle cose così brutte, anche perché sono sempre stata una donna un po’ assente dalla realtà, non sono mai stata attaccata alla televisione, al telegiornale. Ho avuto una vita molto frenetica. Non mi potevo permettere di guardare la tv. Mio padre, però, era molto attento ai nipoti. Vedeva con chi uscivano, chi frequentavano. Li accompagnava al basket nella palestra dove lavorava. Sono stati sempre molto seguiti. Però, con rispetto, senza pressioni.

Signora, arriviamo al 3 maggio 2014. Quel giorno, Ciro, com’è arrivato a Roma?

In macchina, non in pullman. In macchina. Erano partite quattro, cinque macchine di amici, amici di strada, del quartiere.

Ma le macchine erano partite insieme al famoso pullman?

No, no. Lui è partito con la sua macchina con altri amici. Arrivato a Roma, è andato a parcheggiare a Saxa Rubra, dove altro poteva andare! Soltanto che da lì li hanno deviati a Tor di Quinto, abbastanza distante dallo stadio. Non ci sono abbastanza posti per parcheggiare, dicevano circolare, circolare. Così Ciro segue, fino ad arrivare a Tor di Quinto… E lì quasi si spaventa perché non c’è la polizia, cosa assolutamente strana per eventi così importanti. Di solito è tutto monitorato. Ciro diceva sempre che non ti chiedevano le analisi del sangue, ma quasi, quando c’erano eventi di questo livello. Quella volta, invece, non c’era nessuno. Infatti, si vede dai video che non c’era nessuno. È stata una giornata gestita molto male, molto male.

E una volta parcheggiata la macchina a Tor di Quinto, che fa Ciro?

Scende. Scende col suo zainetto, il famoso zainetto dove c’erano i casatielli e la frittata di maccheroni. Quelle erano le sue armi, quel giorno. Le aveva preparate col papà. Io ero sempre impegnata, di solito li preparavo io, ma quella volta mi hanno voluto aiutare. Quando scende dalla macchina, Ciro vede un pullman di tifosi del Napoli, che però veniva dal nord. Sai, ci sono vari club del Napoli dell’Alta Italia, pieni di meridionali, magari nati al nord ma con la passione per la squadra. Una delle persone presenti sul pullman ha detto in tribunale di aver notato un ragazzo con in mano qualcosa, ma non si capiva bene se fosse un panino o una frittata di maccheroni. Era Ciro. Dice che quasi lo ha invidiato perché loro, invece, erano bloccati nel traffico. Quando, all’improvviso, si sentono dei botti… E appare… (Pausa di cinque secondi, sospiro). E appare lui …

Daniele De Santis…

Ha in mano delle bombe carta e le lancia sull’autobus. Nel video di Azzarelli, un romano che ha un negozio nei paraggi del luogo dell’agguato, si vede tutto. Si sentono i botti e si vede il fumo dietro l’autobus. Si vede un gruppo di ragazzi, cinque, sei, sette, Ciro è avanti e dice: che sta succerenn’? Dopo sette secondi ed otto centesimi, si sentono quattro colpi di pistola. Sette secondi ed otto centesimi! In sette secondi ed otto centesimi, cosa può essere successo? Che quella persona ha sparato quattro colpi. L’ultimo colpo è rimasto inesploso soltanto perché si è inceppata la pistola. Quando si è svegliato, mio figlio ha detto che c’è stato un agguato. Dietro il Ciak Village l’individuo non era solo, c’erano altre persone con i caschi.

Non c’è stata nessuna colluttazione, quindi …

Assolutamente no, infatti Ciro non aveva un graffio. Soltanto due colpi di pistola. Magari ci fosse stata una colluttazione! Se ne sarebbe uscito magari con un occhio nero. Ma dico io, un uomo di cinquant’anni che esce con una pistola e con delle bombe carta e va ad inquietare dei pullman con famiglie, donne e bambini a bordo! Perché Ciro allora è corso, quando ha sentito le urla delle donne e dei bambini spaventati che picchiavano contro i vetri. Spaventatissimi, inorriditi. Ciro mai si sarebbe aspettato che dietro l’autobus ci fosse qualcuno… Eppure, anche nel mondo ultras ci sono delle regole ed uno che esce con la pistola non è neanche un ultras. Anche negli scontri, le armi sono vietate. Gli ultras si picchiano solo con le mani. Né con le mazze delle bandiere, né con le mazze di plastiche, né con le spranghe di ferro.

Insomma, Daniele De Santis esplode due colpi di pistola su Ciro, che verrà poi trasportato d’urgenza al Gemelli per essere operato. Mentre la vita di Ciro è appesa ad un filo, un omone passato alla cronaca come Genny 'a Carogna, figlio, pare, stando a quello che leggo, di un camorrista affiliato al clan della Sanità dei Misso, in passato oggetto di DASPO, cioè del divieto ad assistere alle manifestazioni sportive, questo lo dico a riprova del fatto che non stiamo tessendo le lodi e le gesta di nessuno, chiede, per rispetto del ragazzo sotto i ferri del chirurgo, di sospendere il match. Sulla bontà dell’iniziativa ciascuno faccia le sue considerazioni, fatto sta che comincia la trattativa. Le forze dell’ordine chiedono addirittura al capitano, Marek Hamsik, di parlare al microfono. Non basta. Parte il coro: fate ridere. Poi il lancio di petardi che feriscono un vigile del fuoco.

Mio figlio Ciro aveva una mentalità ultra, però non faceva parte di nessun gruppo. Lavorava, aveva la fidanzata, la sua vita, non voleva legarsi. Se tu fai parte di un gruppo devi comunque prenderti delle responsabilità, esserci sempre o quasi sempre. Lui aveva una vita già troppo piena. Non voleva altri impegni. Per lui il calcio era una passione, uno svago. Diciamo che era vicino agli ultras, ma esterno.

Quindi, era sentimentalmente vicino agli ultrà, ma non aggregato, giusto? (Conferma). Da quel momento, Lei è rimasta con Ciro, in ospedale, mentre in tutti i bar dello sport d’Italia si discuteva di Genny 'a carogna tra una birra e l’altra e mentre opinionisti intascavano un gettone di presenza per ridere, scherzare e discettare sulla trattativa dell’Olimpico…

Sì, è stato come quella degenza da bambino. Non l’ho abbandonato neanche un momento, neanche un istante. Per niente al mondo sarei tornata a Napoli. Andavo a dormire vicino all’ospedale. Mi mettevo vicino a lui, quando era possibile e là stavo.

E Ciro era lucido?

Sì.

Immagino vi siate fatti un bel po’ di chiacchierate. Le va di parlarmi di quei giorni?

Sono venute migliaia di persone, tifosi, club ultras da tutta Italia. È venuto il manager di Maradona con la maglia con la scritta “Ciro torna a casa presto, guarisci”. Lo aveva invitato addirittura ad andare a Dubai con lui ed il suo mito. Una catena di amore, di solidarietà incredibili. Chi gli portava una sciarpa, chi un cappellino. Una cosa meravigliosa! Parlavamo sì, per quello che si poteva. Era intubato, gli avevano fatto la tracheotomia, però ha avuto il tempo di raccontarmi e dirmi tante cose. Sai quando i figli crescono, sfuggono un po’ di mano. Mangiano a casa, dormono a casa e questo è tutto. La casa diventa come un ostello, dico sempre io. Ogni tanto si può fare una passeggiata, si può andare al mare insieme, però poi c’è il lavoro, la fidanzata, gli amici. Invece, in quei giorni, l’ho avuto tutto per me. Ci siamo guardati tanto e gli sguardi valevano più di un milione di parole. Gli sguardi, di solito, quanto durano? Qualche istante. In quei 53 giorni sono durati anche ore. Una sera, Ciro mi guardava, mi guardava ed io non capivo. Verso le dieci di sera, arriva il momento in cui ci dovevamo lasciare, arrivava tutte le sere quel momento ed era sempre sofferto perché non si poteva rimanere in rianimazione oltre quell’ora. E lui non mi lasciava, non mi lasciava, mi teneva la mano. Dico: Ciro, che c’è, a mamma? Vuoi qualcosa? E seguitava a fissarmi. Allora, io gli ho dato un bacio sulle labbra. (Pausa di circa sei secondi). Non mi giudicare male l’ho sempre fatto coi miei figli ed anche coi miei nipoti. Allora lui mi ha guardato e mi ha sussurrato: ti amo. Ti amo.

(Pausa di circa dieci secondi. Ci commuoviamo). Eh.

Eh! Questo è il fatto … Eh, cosa si può dire più di questo!

Adesso, signora, è difficile continuare. Eh. (Colpo di tosse). Dunque… (Secondo colpo di tosse). Quattro anni dopo l’accaduto, numerosi, non tutti, ma numerosi tifosi romanisti, durante una partita contro il Napoli, intonando odiosi cori ed ignorando forse l’immenso e indubbio dolore di una madre sopravvissuta al proprio figlio, srotolano quattro striscioni dal tenore provocatoriamente insultante nei suoi confronti. Il più aberrante recitava, cito letteralmente: Che cosa triste… Lucri sul funerale con libri e interviste!

Io non aggiungo nient’altro. Hai detto tutto tu. Dico soltanto: povera gente. Questo dico: povera gente. Prego per loro, sai? Forse, non conoscono amore, forse non sono figli e neanche genitori o, se lo sono, non hanno capito bene che significa… Povera gente, Dio li perdoni.

Da parte della società della Roma, dopo questi episodi, è arrivata qualche parola di scusa oppure…

Quando hanno sparato mio figlio? Non si è detta una parola, che io sappia. Dopo quegli striscioni invece sì. Mi chiamò il presidente americano…

Sì, il signor Pallotta…

Sì, disse scusi, sono stati degli idioti, mi scuso io da parte loro… Che doveva dire, giustamente…

Signora, di recente ha dato un’intervista alla Rai, in una popolare trasmissione domenicale. Una bellissima e delicata intervista in cui la conduttrice, Mara Venier, a parer mio, era autenticamente, visibilmente commossa. Una sola cosa mi ha seccato: una scelta registica che proponeva su giganteschi led, in continuazione, l’immagine dell’assassino di suo figlio… È stata una mia impressione? 

Te ne sei accorto? Ed io abbassavo lo sguardo in continuazione. Io l’ho perdonato, credimi, ma mi sento inorridita a vedere la sua immagine… Dio mi perdoni, ma per me è ancora orrenda, terribile… Chissà se un giorno Dio mi concederà anche la grazia di non provarlo più questo sdegno. Per ora, se posso, la sfuggo e abbasso lo sguardo. Non posso che abbassare lo sguardo. Io l’ho visto quell’uomo durante i processi, quasi tutte le settimane, soprattutto nel primo e secondo grado. Non è stato facile stare alla sua presenza, il mio corpo provava un dolore immenso…

Signora… Come… Com’è riuscita a trasformare tutta questa rabbia in calma e speranza… Come…

Ho provato un dolore che non si può immaginare…  Momenti di rabbia. La voce, la senti? Senti com’è bassa, un po’ rauca? Ho urlato fino a lesionarmi le corde vocali quando Ciro... Ho una lesione alle corde vocali. Però, nel mio cuore non ho mai detto: ammazzatelo. Ho avuto questa pace interiore, sin da subito, che ancora mi accompagna. E questa pace la tieni e la doni quando sei capace del perdono spirituale. Gesù vive nel mio cuore e lui non vuole odio, non vuole vendetta. Lui da me ha avuto il perdono, anche se non me l’ha chiesto. Ma l’ultimo perdono non sta a me darglielo. Non deve parlare con me. Non voglio. Deve parlare con Dio di quello che farà della sua vita. Qualcuno dice che il perdono si dà quando te lo chiedono e lui non me lo ha mai chiesto, ma per me non ha importanza. È stato un fatto intimo, mio, personale. Con questo perdono ho fatto l’esperienza di Dio. Mi sono resa conto che c’era dentro di me come una forza… Che non veniva da me… Questo è Dio… Questo è Dio secondo me.

Cara signora Esposito, è trascorsa qualche settimana dalla nostra chiacchierata, purtroppo non ho potuto fare più in fretta. Mi creda: poche altre volte nella mia vita ho usato la parola “signora” con più convinzione. Ho avuto, però, più tempo per riflettere sulle sue parole. Il racconto dei suoi ultimi 53 giorni con Ciro mi ha fatto venire in mente il piccolo monologo di Luisa Conforto in una straordinaria opera di Eduardo. Luisa, come Lei, è una madre napoletana, in una posizione molto simile alla sua in quei giorni d’ospedale. Gliela voglio far leggere.

“Per quindici giorni l’ho sentito un’altra volta figlio mio, come quando ce l’avevo qua (Con tutte e due le mani aperte si batte ripetutamente sul ventre). Come quando, durante i nove mesi di gravidanza, trovavo modo di rimanere sola con lui, sdraiata sulla poltrona, con le mani come le tengo adesso, per parlarci. E lui si muoveva dentro e mi rispondeva: mi rispondeva dandomi una dolcezza che voi non potrete mai immaginare! Io capivo lui e lui capiva me”.





Back to Top