Gli spalmati

Il placido immobilismo dei giovani "digitali"

    di Antonio Di Dio

Venerdì mattina, ore 12.00. Centro città. Il secondo caffè mi riporta allo stato successivo del post mattinata universitario, letterature comparate e la fine del sogno americano sono stati gli argomenti che la mia mente ha cercato di assorbire dopo il primo caffè, chissà che non siano un segno premonitore della giornata. Compro un libro alla Mondadori accanto al Bar Esposito, e mi avvio passeggiando nella giungla cittadina del piccolo centro della mia cara città di provincia Avellino. Dopo l’università mi piace camminare in attesa all’autobus che mi riporterà a casa. Nel frattempo osservo, ascolto, cerco di capire come sia possibile che orde di giovani ragazzi, come eserciti stanchi che ormai si avvicinano alla maturità scolastica per legge (e sociale, si spera per quieto vivere), come un meccanismo quasi automatico messo in atto da una forza superiore che al paragone la fede in Allah degli integralisti islamici sembra niente, usciti da scuola si spalmino letteralmente su qualunque superficie consenta loro di fermarsi e accendere la prima sigaretta dopo, immagino, le estenuanti ore di scuola e di impegno mentale che hanno affrontato. Come non capirli.

Da una parte la mia età non mi permette di essere troppo severo e saggio nel giudicarli, ma dall’altra mi permette con un pizzico di auto-critica, si intende, di notare, senza alcuna presunzione, sfumature di generazioni passate, come la mia, e presenti, che sembrano inquietarmi; per quelle future non riesco ancora ad intravedere neanche un orizzonte. Se Michele Serra nel suo libro definiva questi giovani, seppur con qualche anno in più, “sdraiati”, io mi permetto (senza alcuna pretesa, si intenda) di potermi avvicinare all’estro analizzatore di Serra, di anticipare anagraficamente la condizione di sdraiati con quella di "spalmati". Sì, perché se lo sdraiarsi si rende possibile da una piattaforma comoda e morbida come può essere un letto o un divano, che di per sé sono metafora incessante di un benessere tale che abbiamo ricevuto in dono dai nostri cari genitori, lo spalmarsi è diverso, non si ha bisogno di una superficie comoda in virtù di un senso di rilassamento da dopo pranzo o dopo cena. 

Lo spalmarsi è l’adattamento a qualsiasi superficie fosse anche la più scomoda, ancor prima di varcare la soglia di casa, senza neanche porci il dubbio se possa esistere qualcosa di comodo più in là della nostra vista, da raggiungere. Come se la necessità di fermarsi quanto prima sia incessante, come se un senso di crisi di astinenza dovuto al troppo sforzo mentale richieda la necessaria paralisi senso motoria del doposcuola. Ora, metafore e giochi di parole a parte, il senso che si respira osservando questi ragazzi è un forte senso di stasi, fisica e mentale. Perché se da un lato la stasi mentale, culturalmente parlando, può derivare da un percorso di studio o di interesse personale non affine alla cultura in genere, la dimensione del movimento fisico che da sempre ha caratterizzato l’uomo, ci dà la dimensione di una mancanza, di un gesto che non c’è, un punto altrove rispetto a dove siamo che non esiste come l’isola di Peter Pan.

L’essere fermi è sintomo di una mancanza di prospettiva, precoce vista l’età, della non percezione di “quel posto” altro verso cui tendere. Un movimento analogico e interattivo è l’unico che essi sembrano ormai conoscere, l’unica dimensione di scoperta possibile. La metà, raggiunta dal movimento, dal viaggiare, dalla scoperta dell’altro qualunque esso sia, senza distinzione di merito o di morale, ha sempre rappresentato il senso di scoperta che ha spinto l’uomo ad evolversi o ad involversi. Oggi invece, come presi dalla noia di non saper più dove andare e da cosa fare, non resta che stare fermi e adattarsi, come un bersaglio che immobile si lascia colpire dal tempo che passa inesorabile. E allora accendersi l’ennesima sigaretta giustifica il nostro fissare il vuoto, e la provincia muore sotto la fatidica frase del “qui non c’è mai niente da fare”.





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