Napoli in farmacia

Uno spaccato di cultura popolare, in una raccolta di prescrizioni casalinghe presentate al banco

    di Sara Giuseppina D'Ambrosio

Napoli in farmacia (Adriano Gallina Editore) è un’idea editoriale che raccoglie i numerosi biglietti manoscritti con i quali la curatrice, Lilyana Pirro Battaglia, nel corso della sua carriera di farmacista, ha misurato le proprie capacità intuitive. Vere e proprie prescrizioni casalinghe, questi veloci appunti mostrano al lettore (partenopeo e non) che anche in parole segnate su piccoli pezzi di carta, molto spesso di fortuna, possa celarsi un tratto del folclore napoletano.

La dottoressa Battaglia, titolare di una farmacia nei Quartieri Spagnoli, in quella via Speranzella nota al pubblico grazie al romanzo omonimo di Carlo Bernari, mostra, attraverso questo raccoglitore fattosi libro, la violenza della lingua parlata, ma soprattutto del dialetto, sull’italiano corrente. Il risultato è una commistione d’idiomi che dà luogo, in alcuni casi, a risultati inattesi ed imprevedibili per gli stessi autori.

A creare i maggiori fraintendimenti sono i nomi dei medicinali, spesso derivati da quelli del principio attivo. Troppo tecnici si prestano facilmente ad essere mal compresi, confusi con termini dalla forte assonanza, sostituiti dal sintomo o dall’effetto curativo. Li ritroviamo, così, in vesti non sempre ortodosse.

Nulla di cui scomporsi, pertanto, nel confrontarsi con la richiesta di un «bebé con clorofillina» (per il Beben Clorossina) e neppure è il caso di chiedersi se il cliente si sia davvero rivolto allo sportello giusto quando «per piangere» chiede che gli sia mandato «il cardinale» (vale a dire il Gardenal).

Un libro corale dagli innumerevoli autori che, probabilmente, mai avrebbero pensato di collaborare ad un tal progetto. Stupisce, soprattutto, nella prima parte del volume la cura, il rispetto portato alla titolare, la cortesia di molte di queste ricette amatoriali. «Gentile signora», «gentile dottoressa», «per piacere», «grazie», «vi prego», tutti segni di una Napoli cordiale che, come in ogni messaggio che si rispetti, non dimentica di firmarsi e, talvolta, quasi fosse una lettera, osa aggiungere la data.

Proprio un’operazione di collocazione temporale, quando possibile, potrebbe essere un’interessante aggiunta al lavoro, mostrando in che modo anche la lingua popolare, che all’occorrenza non teme a tradursi su carta, si evolva e risenta o meno dell’influenza dell’italiano standard.

Per gli amanti del genere, il libro è anche possibilità di addentrarsi nella conoscenza di quella parte del dialetto napoletano quotidiana, ma non scontata, basti pensare allo «zuchetto» (al posto del ciucciotto) o meglio ancora al «ciuculamento» (più pregnante e pittoresco del solletico alla gola).





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