Mina Welby, l'amore d'inverno

L'incontro con Piero a Campo de' Fiori, la bellezza di una vita insieme, la lenta agonia

    di Roberto Rosano

Whilelmine Schett, Mina Welby, ha conosciuto il suo Piero sotto la statua di Giordano Bruno, in Campo de' Fiori, e l'ha sposato il 5 gennaio del 1980, in una giornata d'inverno. Quando me lo ha detto, sono rimasto confuso: che razza di coppia si sposa d'inverno! Poi ci ho riflettuto meglio ed ho pensato: ma sì, in fondo il loro amore non è stato un fiore primaverile, non è cresciuto sotto il sole, all'aria tiepida, quando le piogge sono ormai terminate. È cresciuto nelle fessure delle rocce più aspre, al freddo, al buio, da una radice paurosa. Si è affacciato al mondo con impaccio, con una fitta corona di spine e timidezza. Nessuno avrebbe badato a loro se, un giorno, Piero non avesse scritto una lettera al Presidente Napolitano, se non ci avesse interpellato con quelle urgenti domande sulla vita e sulla morte che per troppo tempo avevamo rimandato...

Signora Welby, Lei di chi è figlia?

Sono figlia di Antonio e Carolina... E sono anche figlia di san Candido, nell'Alto Adige... Sono cresciuta in una famiglia cattolica, sono vissuta al suono di una campana.

Un piccolo comune di appena tremila abitanti, prossimo alla sella di Dobbiaco, così vicino al confine austriaco da essere attraversato da un affluente del Danubio... Un paesello che sembra scappato dalle pagine incantate di Clemens Brentano o dei fratelli Grimm... 

Lo sa che il nostro monastero è stato costruito da un gigante? 

Nientemeno! 

Haunold, si chiamava Haunold. Sì, ma non lo fece mica per niente: ogni giorno gli dovevano dare una tinozza di fagioli con un vitello o un maiale. Un bel giorno i valligiani non avevano più vitelli e maiali e non sapevano come fare. Allora, siccome il monastero era già costruito, hanno fatto una grande buca, l'hanno coperta bene con rami, foglie e, quando il gigante è passato per andare in paese, ci è caduto dentro. E così è morto. (Ride).

Bella gratitudine! 

(Ride) C'è una costola che si dice sia di quel gigante, ma poi si scoprì che si trattava della costola di un dinosauro portata da un frate chissà da dove...

Ma so che per quanto adeguata fosse l'ambientazione, i suoi ricordi di bambina sono tutt'altro che fiabeschi... 

Sono ricordi di guerra, sa. Vivevo in una terra di confine. Passavano i treni con le munizioni belliche. Ogni tanto sentivamo qualche scoppio... Durante la guerra, papà era sotto le armi. Eravamo tutti in ansia per lui. I soldati di Tito avevano distrutto il suo battaglione e l'avevano fatto prigioniero a Fiume. Si sono salvati solo lui ed un suo collega. Fino a settembre non abbiamo saputo nulla. Poi papà ci ha scritto da Lubiana, che non era tanto lontana da noi. Mamma ha iniziato a scrivergli. Usava le lettere della posta aerea che erano più leggere. Scriveva un suo foglietto, a cui noi aggiungevamo delle cose. Mio fratello faceva dei disegnini, io sapevo già scrivere e gli mandavo qualche pensiero. Poi mamma allegava sempre alla lettera un foglio bianco, per lui...

Per consentirgli di rispondere...

Eh, già... (La signora Welby fa una lunga pausa, che non ho il coraggio di interrompere). Poi nel '47 papà morì in prigionia, in Jugoslavia.

Signora, come si guadagnava da vivere nel dopoguerra?

Ho fatto il classico e poi, come privatista, ho preso l'abilitazione magistrale. Ho insegnato nelle scuole medie, matematica. Ho studiato a Innsbruck, ma dopo la morte di mia madre, ho dovuto lasciare per cominciare a lavorare in diverso modo, insomma. 

Platone, Dante, ci hanno insegnato che c'è qualcosa al mondo che muove senza muoversi e che è causa di tanti cambi di vita, di tanti spostamenti. E Lei lascia il paesello sotto l'influsso di questa forza, silenziosa, potente... 

Mi trovavo a Roma per una gita parrocchiale. Giravo per il centro. Noi a casa avevamo un preziosissimo libro scritto in tedesco, in caratteri gotici, su Roma e i suoi tesori. Mi ero innamorata di questa città e volevo vedere i posti che avevo conosciuto grazie a quel libro. Dovevo andare in piazza Venezia, ma non riuscivo più a deviare da quei vicoli del centro, sono così tortuosi i vicoli del centro. Mi sono ritrovata, non so neanch'io come, in Campo de' Fiori. Quando vedo un bel ragazzo con un giacchetto pieno di frange sotto il monumento di Giordano Bruno. Gli chiedo indicazioni per piazza Venezia. E lui si offre di accompagnarmi. 

Quanti anni avevate? 

Io avevo 36 anni e Piero 28. Vidi che camminava in modo strano e, col suo passo vacillante, mi raccontava tutta la storia di Giordano Bruno. Scambiammo ancora un po' di chiacchiere, mi prese tanto in giro! Però, che vuole, mi faceva simpatia. Ci siamo scambiati i numeri, di casa, a quel tempo non c'erano i cellulari. Lo stesso anno, a Natale, sono tornata a Roma con un'amica e sono andata a trovarlo. Gli ho portato i miei biscotti, lo speck, le salsiccette che si fanno su dalle parti nostre e così da una conoscenza è nata un'amicizia. 

Scoprì subito il motivo di quella camminata malcerta?

Non ebbi subito il coraggio di chiederglielo, ma poi, entrando in confidenza, trovai il modo. Mi parlò di quella strana malattia, la distrofia, e rimasi di stucco. Cominciai a documentarmi. I libri dicevano che i malati non avrebbero superato i 20 anni, Piero ne aveva già 28. Sa, all'epoca non si sapeva molto sul decorso di queste malattie. 

E cos'è che la spinge a trasferirsi a Roma, signora?

Mi disse che aveva avuto un peggioramento, che non poteva più uscire di casa. Ho subito temuto che stesse cadendo in depressione. E così presi la mia decisione: vengo a Roma. Volevo andare a vivere da qualche altra parte, ma i genitori decisero di ospitarmi. Mi diedero un angoletto nel salotto e così potevo aiutare la mamma ad accudirlo. Vedevo che cominciava a fare fatica anche lei, povera donna. Il papà era molto bravo, mi affezionai molto a lui. Forse... Non so, anch'io avevo bisogno di un padre.

Ma cosa Le piaceva di questo ragazzo, come mai non è più riuscita perderlo di vista? 

La sua intelligenza e, forse, anche il modo di pensare la vita, che combaciava molto col mio. Lui era molto più laico di me. Mi diceva sempre: tu hai una fede bambina! Leggevamo insieme molte cose, soprattutto Lucrezio, i drammi dei greci e ne discutevamo. Era uno scambio continuo. Siamo cresciuti insieme, non fuori, dentro, dentro proprio, sì... Se penso a quelle chiacchierate... (La signora Welby fa un'altra pausa, intensa, commossa, che decido di rispettare nel più assoluto silenzio sino all'ultimo secondo). E poi ad un certo punto la mamma...

Che aveva occhio...

Dice: Mina, ma come, non ti ha mai chiesto di sposarlo? Dico: no. Mi fa: e chiediglielo tu, che aspetti! Io all'inizio dicevo no, dai come faccio a chiederglielo io. Poi un bel giorno, gli lancio l'idea. 

E lui? 

E lui mi disse: sei matta, no! Secco, eh. Dico: perché? Perché sono malato! E allora? Le malattie vanno e vengono. Si ma la mia non se ne va più. E mi disse: io non voglio sposarti perché così quando ti sei scocciata te ne puoi andare. Mi faceva arrabbiare. Io gli prospettavo la bellezza di un futuro insieme e lui: sei matta! Io morirò asfissiato e tu non saprai più che pesci pigliare. Io imparai a ribattergli tono su tono: chi te lo dice che morirai asfissiato? E se ti cadesse una tegola in testa prima? Un infarto? Aveva questo umorismo nero, tutto suo. A me dava ai nervi e lui mi diceva che non avevo il senso dell'ironia. Con lui l'ho dovuto imperare per forza. 

E poi ha ceduto una buona volta, sì? 

Eh, sì, dopo tanta fatica sì. 

Eppure, secondo me Le diceva di no, ma in cuor suo sperava che insistesse. Voleva essere sicuro che non fosse il capriccio di una ragazza innamorata, ancora incosciente... Voleva essere certo della sua convinzione... Che dice, è così? 

Può darsi, sì, adesso che mi ci fa riflettere. Però, lui era molto sincero, eh. Non era il tipo... Uhm, non saprei, proprio... 

Insomma, vi sposate.

Ci sposiamo sì, il 5 gennaio 1980. 

D'inverno?

D'inverno. In chiesa, sì, dove c'era la zia suora, la sorella di sua madre. Piero era in carrozzina già dal 1978. Ci coprirono di regali quel giorno. 

Continuate a vivere con i genitori di lui, però...

Oh, sì, sì. Io stavo cercando una casa in affitto, ma quando lo dissi in casa: apriti cielo! La madre era contraria ed io alla fine cedetti, anche perché capii che era più semplice gestire la situazione tutti assieme. Piero cominciò a fare uso di droghe per distrarsi dalla sua malattia e forse anche per accelerare il suo passaggio all'altro mondo. Iniziò ben prima che ci conoscessimo con le anfetamine, con l'hashish e poi purtroppo con l'eroina. Nel '78 fu ricoverato per dieci mesi al san Camillo per disintossicarsi. Io e la madre ci alternavamo nell'assistenza. Continuò col metadone per anni, finché non decise di sua iniziativa di sospenderlo del tutto. 

E intanto la malattia andava avanti, inesorabile...

Presto non riuscì più a sfogliare i suoi amati libri. Non riuscì più a reggere la macchina fotografica. Piero amava scattare foto. E allora io, che avevo imparato come parlargli, gli dissi: e che problema c'è? Faremo solo foto col cavalletto. Feci costruire delle guide per fargli scendere le scale con la carrozzina e lui: non ce la farete mai anche con le guide! Papà e mamma sono vecchi, tu sei una papera! Ma questa papera prese una fune, la legò alla carrozzina e mentre il padre la portava giù, pian piano, sulle guide io da su la tenevo con la corda. Poi abbiamo preso una carrozzina scendi-scale. Insomma, trovammo un modo per continuare a portarlo all'aria aperta, soprattutto a Maccarese per la pesca. Non riusciva neanche più a dipingere. Piero amava dipingere. Così, la papera gli faceva fare un bozzetto su carta e poi lo riportava su tela. Facevo il garzone di bottega, insomma. (Ride fragorosamente). Lei mi interrompa pure, non si faccia scrupoli...

Certo... Se è il caso lo farò... (Sorrido).

Grazie (Sorride). Tra il '96 e il '97 le sue condizioni peggiorarono molto. Dimagriva a vista d'occhio. La muscolatura lo stava abbandonando. Faceva fatica a mangiare e, testone com'era, odiava l'idea di essere imboccato. Teneva il cucchiaio con due mani perché il suo lato destro era molto più debole e si aiutava con il sinistro. Aveva questo senso di dignità incredibile. Tante volte di notte aveva bisogno di qualcosa, ma aspettava pazientemente che mi svegliassi da sola per lasciarmi dormire. Non voleva essere un peso per nessuno. Eppure io gli dicevo che accudirlo con amore per me era la cosa più naturale del mondo. 

E ben presto anche il respiro cominciò ad affievolirsi in questo declino senza tregua, signora... 

Una domenica di luglio del '97 andammo a pesca. Non stava affatto bene, ma riuscì a pescare una carpa e la regalò ad un bambino. Quella stessa notte, è stato tutto uno strazio. Stava malissimo. Non riusciva a respirare. Gli cambiavo posizione di continuo, di continuo. Mangiava pochissimo... Chiamai il medico che mi chiese di ricoverarlo, ma lui non volle. Poi un giorno, mentre eravamo sul terrazzo a guardare lo svolazzo dei passeri, ha avuto una crisi respiratoria. Ha avuto giusto il tempo di dirmi: Mina non ce la faccio più. Chiamo l'ambulanza?, gli chiesi. Non riuscì a rispondermi. Violai il nostro patto, non volevo lasciarlo andare. Chiamai l'ambulanza col terrore che non me lo avrebbe mai perdonato. La mia scelta fatta in un secondo, quando l'istinto, l'amore prevalgono sulla ragione, si è trasformata per lui in una condanna a vita! Entrò in coma e quando si svegliò la prima cosa che pensai fu: Oddio, chissà adesso che cosa mi dirà. Non ho rispettato il nostro patto! 

Suo marito ha raccontato che da quel coma si svegliò con la tracheotomia... 

Non fu proprio così. La tracheo non gliela fecero subito. Provarono prima la “Bipap” che è una maschera attaccata ad un ventilatore automatico che pompa aria nei polmoni, ma non funzionava granché, è entrato più volte in coma. Così, ci indicarono la tracheo come l'unica soluzione e Piero era d'accordo. 

E come ha reagito alla sua scelta? Come si aspettava?

Sì, all'inizio ha eretto un muro. Mi trattava con freddezza. È come se l'intesa fra noi si fosse spezzata. Non riusciva a perdonarmi di non averlo lasciato andare. Per fortuna, l'infermiera che veniva ad assisterlo riuscì a fargli fare i conti con la sua nuova condizione e col tempo è riuscito a riconciliarlo con la vita. Dobbiamo molto a quell'infermiera. A me ha insegnato tutte le manovre di cura e assistenza, così ben presto ho potuto accudirlo esclusivamente io. Non ho più permesso a nessuno di farlo perché sapevo quanto fosse umiliante per Piero essere assistito da persone estranee.

L'ha mai perdonata per quella scelta?

Non solo. Dopo molto tempo mi ha anche chiesto perdono per quella freddezza. Il nostro rapporto è tornato come prima. Anche il suo senso dell'umorismo è tornato come prima. Mi diceva: Mina, come faccio a mettermi le magliette con questo affare nella gola? Ed io: compreremo solo delle magliette col collo a V! Fece una scommessa con l'infermiera: scommettiamo che per Natale sarò morto? E lei gli rispose: scommettiamo che a Natale mangerai la mia pasta al forno? Piero perse la scommessa. Era un bel soggetto: una volta si fece mettere in posa sulla carrozzina con una gamba sull'altra ed una sigaretta spenta in mano. 

Insomma, le cose procedevano discretamente dopo la tracheotomia...

Fino al 2001 sì. Non doveva stare sempre attaccato al respiratore, riusciva a stare seduto di tanto in tanto e ad uscire, qualche volta. Poi, però, cominciò ad andargli il cibo di traverso, perciò ha accettato un sondino naso-gastrico, che ha tenuto per un anno e mezzo. Dopodiché ha solo ingerito cibi liquidi. Col passare del tempo è diventato sempre più dipendente dal respiratore. Non riusciva a respirare autonomamente neanche per un minuto. Si rassegnò all'idea e non ci provò più. Quando gli chiedevo se volesse provare a respirare da solo mi rispondeva: è così comodo quando la “mamma” (così chiamava il respiratore) ti pompa aria dentro. 

Si stava rassegnando al suo destino, insomma... 

In quel periodo, gli proposi di cambiare casa, di prenderne una al pian terreno con un giardino per facilitare le sue uscite. E lui: ma non lo capisci che è finita? È in quel periodo che ha iniziato a pensare seriamente all’eutanasia. Aveva aperto il thread «eutanasia» sul forum dei radicali, e il blog «Calibano» sul Cannocchiale: scriveva prima con un bastoncino e poi con un dito. Era velocissimo e si concentrava a tal punto che mentre scriveva non sentiva nessuno. Già nel 2003 e poi nel 2005 ha avuto uno scambio di mail con Francesco D’Agostino, allora presidente del Comitato nazionale per la bioetica, al quale poneva interrogativi pesanti sulla differenza tra vita e morte sospesa.

Io ho dato un'occhiata alle cose che scriveva su quel blog e mi sono chiesto come reagisse Lei, signora, a quelle parole, così dure, così sfiduciate e senza appello...

Leggere quelle cose era dolorosissimo per me. Una volta scrisse: neanche la persona che amo di più al mondo è disposta ad aiutarmi a mettere fine a questa sofferenza. Mi dica: cosa avrebbe fatto Lei? Cosa avrei dovuto fare? Dargli tutte le pasticche, come mi chiedeva? Tenerlo in vita contro la sua volontà in quello stato straziante? Cosa avrebbe fatto Lei? 

Non so rispondere almeno quanto Lei a questa domanda, signora. Quale prepotente dottrina saprebbe risponderle, signora. Quale imbecillità potrebbe rispondere con sicurezza ad una domanda del genere, signora. Però, una cosa mi permetta di chiedergliela. Piero che consigli dava a chi viveva nella sua stessa condizione, invece? Ecco volgiamola al rovescio.

Con Luca Coscioni aveva insistito molto perché accettasse la tracheo. Gli diceva: tu sei giovane, provaci. Vedrai che tra pochi anni la scienza scoprirà qualche terapia e sarai libero! 

E poi, dopo la morte di Coscioni, nel 2006, è stato eletto co-presidente dell'associazione a suo nome...

Sì, sì. Questo però basti a chiarire che Piero non era un pessimista cosmico, un depresso, assolutamente no. Era solo sicuro di non volerla per sé quella vita, che non era più una vita, ma una morte sospesa. Qualche mese dopo, in settembre, scrisse la famosa lettera a Napolitano. Quella lettera era il frutto di anni di riflessione, non era stata scritta in un momento di sconforto, ma con matura convinzione e massima consapevolezza. 

Permette, signora. (Tiro fuori la lettera stampata su carta).

Certo.

Benedetto XVI aveva ribadito con forza la dignità inviolabile della vita umana dal concepimento al suo termine naturale. Suo marito in quella famosa Lettera al Presidente, gli risponderà così: cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale...

(La signora Welby in modo molto strascicato emette un paio di sospiri). Non c'era niente di naturale. Proprio niente.

Dopo quella lettera, so che si farà vivo un certo dottor Riccio, che si dirà disposto ad adempiere la volontà di suo marito... E Lei, signora?

Quando Cappato mi disse che Riccio sarebbe venuto a Roma, non immagina: mi cascò il mondo addosso. Dissi: è fatta! Non dormivo, dimagrivo giorno per giorno. Piero lo capiva e i diceva: stai tagliando troppa cipolla. Quando il dottor Riccio venne a casa, lo accolsi con freddezza. Gli preparai un caffè e, mi vergogno quasi un po' a dirlo, ogni tanto una vocina dentro mi diceva: chiama la polizia. Ma, poi l'accantonavo e pensavo, è così bello il nostro rapporto d'amore, quella vocina fa parlare il mio egoismo. Si sono accordati per il mercoledì 20, due giorni dopo. Ma mi raccomando, disse Piero, la sera, dopo la trasmissione dei pacchi! Chissà perché da qualche tempo non voleva più vedere programmi impegnati e si era appassionato ad Affari tuoi, all’Isola dei famosi e al Grande Fratello, quando mai! Secondo me, non aveva più voglia di pensare a nulla... 

Signora, facendo le interviste mi sono accorto che esiste una domanda canaglia, quella che tutti si aspettano e che tutte le volte fatico a pronunciare. Le parole mi salgono in gola come tante bolle d'aria. Quando è arrivato quel 20 dicembre...

Gli ho preparato la colazione migliore che avessi mai fatto. Almeno ci ho provato. Poi nel pomeriggio abbiamo chiacchierato a lungo, abbiamo ricordato insieme tante cose, tanti momenti della nostra vita. Lui non aveva molta voglia di ricordare, si era come stancato di guardare al passato. Mi chiese di non piangere. Non piangere!, mi disse, Prometti? Ed io, non so neanche come, ce l’ho fatta: non piansi. Volevo entrare in piena sintonia con lui, in quel momento. Gli sono stata vicino fino all’ultimo istante, finché non si è addormentato e...il medico ha staccato il respiratore. Se ne è andato come voleva lui, con grande serenità, dopo averci salutato tutti ed aver ascoltato Bob Dylan...

C'è un passaggio successivo alla morte del suo Piero, che annovererei tra i momenti più infelici e disonorevoli della storia della Chiesa, quando il Vicariato di Roma, nella persona del cardinal Ruini, non ha concesso i funerali religiosi a suo marito... 

I funerali si sono tenuti di fronte alla chiesa di piazza don Bosco, quella che noi avevamo scelto per la funzione religiosa. Le porte della chiesa erano chiuse, faceva freddo...

Quale giorno migliore allora per tenerle aperte le porte della Chiesa...

Però... Io non ho rancore nei confronti di nessuno. C'erano persone che volevano andare in chiesa e invece hanno trovato i funerali là fuori. Noi abbiamo celebrato il nostro funerale laico sulla piazza, in mezzo a tante persone, di tante fedi diverse. Ci hanno travolti di affetto. Sono venute alcune suore, e poi i protestanti, i valdesi, coi loro pastori, gli ortodossi... Quindi, era veramente accompagnato anche dalla fede, il mio Piero...C'era un calore, un'atmosfera così intensa che non sentivo il freddo, mi sentivo lì dentro, pur essendo là fuori. La madre, invece, ci rimase molto male. Quando il prete, qualche giorno dopo venne a casa, lo trattò malissimo. 

E Lei, con la sua fede bambina, che recita ogni giorno il Padre Nostro, compitando, e che è nata al suono di una campana... 

Ed io, io che dovevo dire... Ho pensato: e bravo, Piero, hai vinto tu anche stavolta! Non ci rimasi male più di tanto. Quando poi lessi i risultati dell’autopsia, che dicevano che praticamente i suoi muscoli respiratori non esistevano più, lì sì che sono stata male, sono scoppiata in lacrime. Mi sono resa davvero conto della sua sofferenza e mi sono sentita così egoista ad averlo voluto trattenere... 

 

È finita così la nostra chiacchierata, signora Welby. Non ho più saputo chiederle altro. Cos'altro avrei potuto chiederle? Si è sottoposta a questo “intervento a cuore aperto”, con tanta generosità nei miei riguardi e di chi leggerà il mio lavoro. Scusi il ritardo: questa nostra chiacchierata risale a qualche mese fa, il giorno dopo l'approvazione della legge sul testamento biologico, quando era assediata dai giornalisti. Quella sera, l'ho salutata nel modo più banale, impettito, convenuto. Sono sicuro, però, di averle sorriso, e sono anche sicuro che mi avrà letto negli occhi la parola grazie. Se così non fosse, glielo ripeto, con tutto il cuore, signora Welby, grazie!





Back to Top