Renato Natale, El pueblo unido

«Il clan dei casalesi ci ha rubato l'identità. Io non potevo girarmi dall'altra parte»

    di Roberto Rosano

Avevo lasciato due persone ad aspettarmi sotto il municipio, credendo che la chiacchierata col sindaco sarebbe durata non più d’un’oretta. Invece, ci trattenemmo per più di due ore e mezza. I miei poveri accompagnatori, a cui quel luogo dovette sembrare periglioso e misterioso come Mompracen, ingannarono l’attesa girovagando per Casal di Principe, bevendo un caffè, scattando foto ai tetti morti, alle ante mezze chiuse, alle imponenti facciate, ai vicoli, ad un grandioso portone e al muro a lato, su cui il dottor Natale aveva fatto appiccicare una targa con una sfilza di nomi, tutti agnelli sacrificali della guerra alla camorra.

Mentre andavano a zonzo, come due compari, sotto lo sguardo incuriosito dei casalesi, furono attirati da un piccolo murales, fatto con caratteri precisi di inchiostro nero, che parevano stampati e non impressi a schizzo da una bomboletta. Non era una frase, ma una sequenza di numeri: uno, tre, uno, due. Che vorrà mai dire?, si chiesero entrambi, ma nessuno dei due ebbe la benché minima idea di cosa fosse quello strano codice. Non lontano da loro, un gruppo di anziani giocava a carte, gridandosi morti e stramorti, sulla soglia d’un circolo ricreativo. Per cortesia, sapete dirci che significato ha la scritta su quel muro?, chiese candidamente uno dei due compari. Da lì fu un coro di boh!, chissà!, voi ne sapete niente?, neh tu ne sai qualcosa?, e che ne sacc’!

Solo uno si scostò dal coro generale. So io che significa, disse, stringendo a sé il braccio sinistro col mazzo di carte, Significa che accà nun cambia mai niente, tenim semp’ a cap’ e’ merda! Ma siete giornalisti? Siete giornalisti, voi?, si intromise un giovane, che aveva notato il questionare intorno al codice. No, no, siamo qui di passaggio. E che volete sapere? Niente, ci stavamo chiedendo cosa volesse dire quella scritta. Quella?, chiese il ragazzo, indicando il murales. Sì, quella, quella: uno, tre, uno, due. Che significa? Ma non andate al cinema voi? Uno sta per A, tre sta per C, uno di nuovo per A e due sta per B. ACAB. ACAB? Eh, sì, ACAB! E che significa?, chiese col solito candore uno dei due compari. Il giovane stette un po’ in silenzio, poi disse in una sola tirata: significa all cops are bastards, tutti i poliziotti sono bastardi. 

Sindaco, in che modo pensò di vendicare il povero don Peppino?

L’unico modo era quello di attirare prepotentemente l’attenzione su quanto accaduto. Uscito dalla chiesa, andai in una casa vicina. Lì chiamai i miei collaboratori. Dissi: tenete aperto il municipio. Spalancate il portone e state di sotto a presidiare l’ingresso. Telefonate a tutti i giornalisti possibili ed immaginabili. Convocate il consiglio comunale. Fate stampare i manifesti, avvisate tutti, tutti. N’adda manca’ nisciuno! Intanto, corsi in prefettura. Mi feci accompagnare da due assessori. Lì trovai il Capo della polizia, Vincenzo Parisi, che si trovava a Caserta per affrontare l’affare di Villa Literno: c’era una sorta di villaggio africano, che conteneva circa 2500 persone, una vera e propria città, fatta di baracche, di vecchie roulotte, di auto scassate, come quelle che vediamo int’a televisione nelle periferie del Brasile o dell’Argentina. A’ popolazione locale s’era ribellata e chiedeva lo sgombero.

Immagino che questo problema passò subito in secondo piano.

Immediatamente! Corsi insieme al prefetto e al Capo della Polizia a Casale, dove, nel frattempo, era arrivato il giudice. Era già stata spostata la salma. Quando arrivammo, la piazza era già stracolma. Una folla, una marea di curiosi, di giornalisti, tutt’i’ televisioni, a carta stampata, stavano tutti là. All’Angelus papa Wojtyla parlò di questa cosa…

Voglia Iddio far sì che il sacrificio di questo suo ministro, chicco di grano caduto nella terra e morto, produca frutti d’operosa concordia…

Fu potente, l’eco di quell’Angelus fu potentissima. Tutti i giornali sbatterono la notizia in prima pagina: prete anticamorra ucciso. Noi preparammo i funerali per il 21 marzo, un lunedì. Il corteo partì dalla chiesa di san Nicola, dove era stata esposta la salma. Ai funerali parteciparono 20.000 persone. Dall’altare avevamo dato indicazioni di appendere un lenzuolo bianco sui balconi e le finestre. Tutto il paese era coperto di lenzuola bianche, tutto. Tutte le case,  comprese i’ case de’ camorrist’. Parteciparono le autorità di tutta la Campania. Vennero sottosegretari, ministri, da Roma, tutta la Chiesa campana, tutti i vescovi.

Insomma, ottenne che tutti i fari fossero improvvisamente puntati su Casal di Principe. Su questi vicoli bui si accese una luce imprevista ed accecante, che rese evidente anche la polvere, gli scarafaggi, i moscerini ed impacciò i movimenti dei camorristi…

Fu certamente un richiamo  molto forte, ma i camorristi non si lasciarono impaurire dalle telecamere, anzi usarono tutta la luce mediatica che si era concentrata su don Peppe per spargere infamie contro di lui. Come nelle peggiori dittature militari, misero in piedi un gigantesco linciaggio morale. Sparsero la voce che don Peppino non era stato ucciso per l’impegno anticamorra, ma pe’ cose’ e’ femmen’. Perché se la faceva con la donna di qualche uomo di camorra, che aveva poi deciso di vendicare il suo onore, uccidendolo. Un’altra voce invece diceva che don Peppe aveva tenuto nascoste le armi de’ camorristi… Inventarono molte cose, con l’appoggio dei giornali locali…

Tutto per screditare il prete ammazzato, per farlo sembrare, Lei permette, sindaco…

Certo, certo…

Un viscido puttaniere e non l’eroe di cui i giornali parlavano…

Eh, e quello è, il meccanismo. Non è che…

La gente cominciò a dire: eh, ma se l’hanno ammazzato qualcosa c’entra con quella brutta gente, a chi si fa i fatti suoi la camorra non torce un capello… E riuscirono in questa operazione?

Sì, all’inizio sì. Nei primi anni, riuscirono a creare un alone di sfiducia attorno al nome di don Peppe. Ogni anno, io m’inventavo qualcosa per commemorare il suo martirio, perché per me era un martirio, ma ero solo. Anche la Chiesa iniziò ad avere … Come dire … prudenza.

La Chiesa è abituata a comprare d’estate la pelliccia per l’inverno…

Eh, sai, la Chiesa pensò: se poi si scopre che o’vero teneva l’amante, che figura ci facciamo? . È meglio che stiamo zitti. Il vescovo di allora, che, all’inizio era stato netto, cominciò a tirare i remi in barca. Anche gli organi dello Stato tirarono i remi in barca. Il procuratore della Repubblica di Napoli mandò a dire: ma statev’ zitt’ perché non sappiamo se davvero don Peppe aveva una tresca. Io, invece, volli scommettere sulla buona fede di don Peppe e continuai ad insistere. Avevo fatto una promessa sul suo cadavere: non sarai dimenticato, gli dissi. Questa morte adda’ essere la loro tomba.

E così un po’ alla volta, qualcuno rimise i remi in acqua…

Si aggiunsero a me suoi vecchi amici, i giovani, insomma il tempo, galantuomo, restituì a don Peppe il credito che aveva perduto… In occasione, del quindicesimo anniversario della morte, ci fu un’altra manifestazione con ventimila persone, coi portoni delle case aperti per accogliere i visitatori. Tutta la città partecipò e l’organizzazione non fece capo a me, ma fu iniziativa diretta dei ragazzi, del comitato don Diana, il che mi fece molto piacere.

Torniamo però alla sua prima e breve esperienza da sindaco, tra il ’93 ed il ’94. Cosa ha fatto per alienarsi così tanto le simpatie della camorra, diventando il secondo bersaglio dopo don Peppe?

Tre settimane dopo la morte di don Peppe, venne a Casal Di Principe la troupe di una trasmissione dal titolo "Il coraggio di vivere", della seconda rete rai, a seguire la messa di trigesima della morte di don Diana. Passarono le telecamere sotto casa di Walter Schiavone, che sarà poi mediaticamente nota come Villa Scarface. Schiavone si innervosì, cominciò a picchiare l’auto della rai con la pala, fece stimolare i cani contro la troupe. Schiavone raggiunse il posto, picchiò uno dei giornalisti. Mandarono in onda tutto. Fu quello l’inizio della condanna.

E Lei che c’entrava?

Un anno dopo, la stessa troupe, che ormai realizzava un’altra trasmissione giornalistica, venne per seguire la cerimonia in occasione dell’anniversario della morte di don Peppe. Io accompagnai questi con le telecamere, in giro per Casale, alla chiesa di don Peppe, al cimitero, presso la tomba. Loro mi videro insieme alla troupe che aveva osato sfidare Schiavone e, la stessa notte, misero in atto una chiara e simbolica minaccia. I carabinieri mi chiamarono all’alba per avvisarmi che c’era qualcosa che non andava sotto casa mia. Mi affacciai al balcone e vidi una montagna di letame, tonnellate di letame, dall’ingresso di casa mia fino al manto stradale.

Ho letto anche di un’altra azione intimidatoria nei suoi riguardi, un episodio passato alla cronaca col nome di battaglia dei paletti. Di che si tratta, sindaco?

Io avevo deciso di chiudere al traffico la piazza qui sotto, questa, di fronte al municipio. Mica sempre, soltanto la domenica mattina. Lo feci dopo alcuni mesi che ero stato eletto per adempiere ad una promessa elettorale. Chiudemmo la piazza con una fioriera, ci pareva una soluzione semplice ed estetica. La stessa notte fu distrutta. Allora decidemmo di mettere al posto della fioriera dei paletti fissi con una catena removibile, come aveva fatto Bassolino a Napoli. Sabato notte, i paletti vennero smontati e messi sotto casa mia. Il mattino seguente rimisi i paletti in macchina ed andai a rimetterli a posto con i vigili. La cosa si ripeté più volte. Noi mettevamo i paletti, sembravo una specie di sceriffo in piazza cu ‘sti paletti!, ed il mattino seguente li ritrovavo sotto casa mia.

Perché non volevano che lei pedonalizzasse quella piazza?

Che ce ne fotteva a loro, dice?

Ecco.

A loro importava perché quella decisione era stata presa senza il loro consenso. Era una questione di principio. Si trattava di rapporti di forza. La gente vedeva che era arrivato qualcuno al comune che prendeva decisioni senza chiedere il permesso. (La nostra conversazione è interrotta dal rombo d’una sgommata di motocicletta, che ci fa trasalire) Ehhhhh… (Imprecazioni) Hai fatt’ trema’ o palazz’!

Ah, ah, ah, e che era un aereo, sindaco!

Mannaggia a’ miseria, oh!

Tutto bene?

A posto! (Si passa una mano tra i capelli, si sistema con un po’ di stizza i soliti occhiali sul naso).

Insomma, la sua prima esperienza da sindaco durerà pochi mesi. Come cadde la sua giunta?

Tre consiglieri della mia maggioranza, di punto in bianco, passarono all’opposizione. Si dimisero in blocco assieme a quelli dell’opposizione e così il consiglio comunale si sciolse automaticamente.

Uhm, e questi tre consiglieri come mai fanno questa scelta?

Io dico che erano tra la carota ed il bastone.

Ma c’era qualche controversia che potesse giustificare un loro passaggio all’opposizione?

No, no. Si doveva approvare il consuntivo dell’anno precedente. No, no, non c’erano nessuna ragione a giustificare una simile scelta.

Perché non si ricandidò alle successive elezioni comunali?

Io volevo ricandidarmi da sindaco, ma nel ’95 c’erano anche le regionali ed i miei compagni Ds volevano mi candidassi per la regione. Io preferivo fare la mia battaglia qui.

Temevano per lei?

Sì. Molti di loro con le lacrime agli occhi mi dissero di no. L’amministrazione successiva poi fu sciolta di nuovo per infiltrazione mafiosa.

Eppure fino ad allora si trattò solo di eclatanti intimidazioni, non di minacce di morte vere e proprie. Giusto? (Annuisce). Certo in un piccolo ed antico mondo della vendetta qual era quello di Casal di Principe, aveva già rasentato la linea del fuoco più volte. Sindaco, quand’è che supera definitivamente quella linea?

Nel 1998.

Uhm…

Era iniziata l'inchiesta Spartacus, il cui esito tardava ad arrivare.

Un momento. Il processo Spartacus ebbe origine da un’indagine avviata nel 1993 dalla “Direzione distrettuale Antimafia”, in cui un pool di magistrati, tra i quali Cafiero De Raho e Lucio Di Pietro, ricostruì per filo e per segno le vicende del Clan dei Casalesi dai tempi del boss Bardellino sino ai tempi correnti.

Ecco l’esito di questo processo, che si concluderà nel 2010, tardava ad arrivare. Così io, il sindaco di Aversa ed il senatore di San Cipriano, Lorenzo Diana, chiedemmo un incontro con il vicepresidente della Camera, Luciano Violante. Gli spiegammo che c’era questa inchiesta, che durava da troppo tempo, che a Casale c’erano dei camorristi che giravano tranquillamente per strada con l’elenco in tasca dei cinquecento indagati. Il giorno dopo, Violante fece un attacco molto duro alla procura di Napoli, che reagì a sua volta molto duramente. Dopo qualche settimana, scattò il blitz. Ci trovammo accerchiati da un esercito. C’erano militari provenienti da tutta Italia, che erano stati portati in Campania con la scusa di fare un blitz alle vele di Secondigliano. Non volevano far sapere niente a nessuno, in realtà quei giovani soldati si ritrovarono a Casal di Principe. Neanche i carabinieri di Casale ne sapevano nulla. Accerchiarono la città, entrarono nelle case, portone per portone. Ciononostante, buona parte dei boss erano già scappati. Ovviamente i camorristi accusarono me ed il senatore Diana di aver causato il blitz.

Ad ogni buon conto, sindaco, non avevano tutti i torti. Siete andati voi a svegliare le serpi in procura. Siete andati a mettere, come si dice, carne a cuocere.

Non avevano tutti i torti, certamente.

Cominciano a scattare le minacce, le lettere anonime...

La notte di Natale del ’96, stavamo per metterci a tavola, quando ricevetti una chiamata. Dico: e mo chi sarà? Sarà qualcuno per gli auguri? Ma non è ancora mezzanotte. Rispondo. Era il Capitano Manzi, adesso colonnello a Roma. Dice: dottore, dovreste venire un attimo in caserma, vi devo parlare. Dico: ma è ‘a notte e’ natale, che succede? Ha ragione, dottore, ha ragione, si faccia Natale in pace e domattina venga da noi. Domani mattina alle otto, va bene? Dico: ma se questi mi convocano la mattina di Natale alle otto deve essere qualcosa di molto serio. Mi sono fatta la nottata chiara, chiara, pecché: che vuo’ durmi! La mattina dopo, mi vesto, mi sbarbo e alle otto in punto mi trovo faccia a faccia con il capitano. Dice: dotto’, su disposizione del Ministero dell’Interno Le è stata affidata la scorta. L’auto blindata è già sotto che l’aspetta.

(La voce del sindaco è diventata bassa e roca, ma, dopo un secco colpo di tosse, si fa robusta e ferma come prima).

Dissi: voi date la scorta a me? E mia moglie, che va a lavorare ogni mattina, le date scorta? A o’ segretario comunale gli date la scorta’? Ai figli miei date la scorta? Dovete mettere sotto scorta tutt’o’ paese. Io faccio il medico di famiglia, se la gente vede che ho tre e’chist’ vicino (si riferisce agli agenti della scorta) chi viene più da me? No, non può essere! Non è possibile! Poi se io accetto la scorta sarebbe come ammettere ai loro occhi di aver fatto qualcosa contro di loro. Per quanto tempo potete darmi la scorta? Tre anni, quattr’anni, cinque anni, dieci anni? E quando poi me la togliete? M’accirono! (mi uccidono). Mi rifiutai. Mi fecero firmare 50 carte. Poi, mentre stavo andando via, il capitano mi chiamò e disse: io ero sicuro che voi avreste fatto questa scelta.

E le minacce continuarono?

Per un po’ di tempo sì, poi si sono interrotte.

Lei ha camminato su una corda per più di vent’anni. Ma io mi chiedo: e la sua famiglia, sindaco? Come ha potuto mettere in pericolo la vita dei suoi figli? Possibile che i suoi affetti non le hanno fatto ritrovare quel limite all’incoscienza, alla follia?

Lei non mi crederà, ma gli anni Ottanta, che sono stati gli anni di fuoco, gli anni in cui abbiamo rischiato tutti moltissimo, sono stati i più belli della mia vita. C’era il pericolo, ma facevamo come se non ci fosse. Ricordo che appena possibile prendevo i miei figli e li portavo al mare, in montagna. Li portavo a Gaeta. Era bellissimo vedere la meraviglia nei loro occhi. Giocavo molto con loro, a volte andavo a prenderli a scuola con la scusa di portarli ad una visita, invece li portavo a giocare. Anche mia moglie è medico, perciò ci alternavamo sia nella cura dei figli che nei servizi di casa. Dall’89 poi cominciò la mia attività come medico degli immigrati.

Ha fondato l’associazione Jerry Maslo, in memoria di un rifugiato sudafricano ammazzato da una banda di criminali… 

Che muore proprio quell’anno, sì, l’89. Nonostante questo, però, riuscivo a stare con la famiglia. I miei figli hanno sicuramente subito qualche effetto negativo da queste vicende, ma io aggiungerei: come i figli di tutti. Tutti i figli degli anni Ottanta hanno subito le conseguenze dei mali di quegli anni. Uscire e sapere che un giorno hanno ammazzato uno, un altro c’è stata una sparatoria, un altro ancora è sparito tizio... Eravamo in guerra.

Settecentocinquanta morti, tra innocenti e non!

Tante volte me lo chiedo: è mancato poco che non fossi uno di questi settecentocinquanta. Forse avrei dovuto avere più rispetto nei confronti della mia famiglia. Hanno rischiato grosso insieme a me. Però, poi mi dico: se non mi fossi regolato così, avrei potuto presentarmi ai loro occhi a testa alta come faccio oggi?

Cosa legge negli occhi dei suoi figli quando la guardano?

Meraviglia, rispetto e orgoglio.

I suoi figli vivono ancora qui?

Il maschio sì, la femmina invece vive a Milano, ha avuto due bambine che…c’hanno l’accento milanese (fa spallucce). Eh che vuoi fare!

Nessuno dei suoi figli le ha mai detto: papà, ma perché ci hai fatti crescere qui?

No, il contrario. I miei figli non mi considerano uno scapestrato, uno che combatte contro i mulini a vento, perché hanno visto dei risultati pratici nella mia azione. Mi colpì molto una frase di Pablo Neruda: confesso che ho vissuto. È stupendo: alla fine della mia vita, confesso che ho vissuto. Non so se tutti lo possono dire. Ad oggi, che sono ancora relativamente giovane, posso dire che ho vissuto.

Cosa c’è ancora da fare a Casal Di Principe?

(Il sindaco rimane qualche secondo assorto in un pensiero che sembra turbarlo e divertirlo insieme, prima di continuare). Scusa, ma tu di dove sei? Dove vivi adesso?

In provincia di Cuneo.

E scusa, cosa c’è da quelle parti… L’ho già sentita quella zona, ma…

Non so, le Langhe, qualche fabbrica di panettoni…

Ecco, se tu lo chiedi a me, io ti risponderò: sono di Casal di Principe. E tu mi dirai: oh, ma l’ho già sentito nominare, oh perbacco, perché l’ho già sentito nominare? Io devo risponderti: per il Clan dei Casalesi. Mi spiego? Non ti dico: Casal Di Principe dove fanno le migliori mozzarelle del mondo, non ti dico di Francesco o’ partigiano che ha fatto le lotte n’copp i muntagne per difendere la popolazione locale, non ti parlo della storia della Santissima Preziosa, no, no, devo dirti il Clan dei Casalesi, io che ho combattuto contro questi fenomeni! Hai capito cos’hanno fatto i camorristi? Ci hanno rubato l’identità! Quando si sono definiti “casalesi” ci hanno rubato il nome. Io devo fare in modo che i casalesi, cioè i cittadini di Casale, abbiano alternative nell’identificazione. Vanno cercati i miti e ricostruiti i miti, quelli veri.

Sindaco, la camorra è debellata a Casal di Principe?

La camorra è in carcere in questo momento. È cambiato il vento.

Ma, Il vento va e poi ritorna, come direbbe Bukovskij. È possibile, sindaco?

È possibile, non bisogna mai abbassare la guardia.

Quali sono i nuovi rischi di Casal di Principe?

I giovani imbastarditi dalle difficoltà economiche. Il rischio è che questi gruppetti di ragazzini, bulletti, disturbatori non riprendano un percorso già concluso. Ci sono gruppetti su cui c’è già la nostra attenzione, mia e delle forze dell’ordine. Ogni tanto qualcuno prova a fare qualche estorsione, ma oggi, per fortuna, i tempi sono cambiati. Adesso, appena c’è un’estorsione la gente denuncia. Questo è uno straordinario progresso.

Nel 2014, dopo vent’anni dal suo primo, travagliato mandato, è stato rieletto sindaco di Casal di Principe col 60% dei voti…

C’è stata una grande festa. Mi hanno portato fuori, sulla piazza. Ho dedicato la vittoria a tutte le vittime innocenti di camorra, alle anime innocenti di questa guerra. Alla chiesa di san Nicola, la chiesa di don Peppe ho trovato un banchetto con la bottiglia di spumante. L’ho aperta ed abbiamo bevuto alla memoria di don Peppe. Dietro di me la scritta: qui la camorra ha perso! È a liberazione! El pueblo unido jamás será vencido! È sempre a’ stessa storia! Una storia d’amore e di emozioni, tante emozioni. Le emozioni provate nel ’68, i comizi di Berlinguer, il concerto degli Inti Illimani alla festa dell’Unità Nazionale del ’76, dopo il colpo di stato in Cile. Un milione di persone che ascoltavano questo concerto col pugno chiuso in aria, gridando insieme: el pueblo unido jamás será vencido! Che dovevo fare, tenermi gli oppressori in casa e girarmi dall’altra parte? Eh, no, non può essere, so’ casalese e non me posso porta’ e’schiaffi a’ casa.





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