Perche' vedere l'ipnotico 'Dahmer'

Successo di critica e pubblico della serie Netflix sul cannibale di Milwuakee

    di Mario Vittorio D'Aquino

Una famiglia disastrata, l’aspetto da solito soggettone e una passione compulsiva e lugubre per la tassidermia. In casa, una madre in continua lotta contro le pillole che incassa le invettive di un marito preso dal lavoro e lontano dalle richieste di un bambino incompreso. Il matrimonio dei suoi genitori crolla davanti ai suoi occhi e i due finiscono per separarsi pochi anni dopo. Jeffrey si ritrova quindi solo a lottare con le proprie insane pulsioni. Il prologo della vita di un giovane che prende una piega raccapricciante viene ricostruita nella serie tv ideata brillantemente da Ryan Murphy e Ian Brennan. Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer è infatti un prodotto di impressionante successo, primissima nella classifica delle serie più viste a pochi giorni dal lancio scavalcando addirittura gli ascolti di Squid Game, nonostante sia, come il fenomeno coreano, non orfana di critiche per la spettacolarizzazione di un non-mito. A riesumare i panni del diabolico quattr’occhi è Evan Peters, lo stesso di American Horror Story, di cui si apprezza sin da subito l’immedesimazione in un personaggio che tra la fine degli anni ’70 e il 1991 ha ucciso, a cadenza quasi regolare, diciassette ragazzi, compiendo sui cadaveri atti di necrofilia, cannibalismo e mutilazioni. La diciottesima “preda” (perché con Dahmer è di questi termini che si deve parlare), caduta nelle grinfie del mostro di Milwuakee, è quella che è riuscita a vedere la morte dietro le lenti di quel diabolico biondino, sfidarla e scamparla nel maledetto alloggio 213 degli Oxford Apartaments, dimora dell’assassino e dove da lì la serie ha inizio. La scelta dei martiri del suo sfizio malato era chiara: solo maschi (Dahmer era infatti omosessuale), specialmente neri e latinos.

La chiave di lettura della serie coinvolge sin dai primi ciak e spazia tra l’essere una fiction e una docuserie. Racconta e interpreta vicende che circondano la vita di Dahmer, introducendo così il personaggio testardo e grintoso di Glenda Cleveland che aveva capito le oscure dinamiche in quell’appartamento e che con coraggio ha denunciato più volte la polizia che, da come la descrivono, sembrava non interessarsene “di battibecchi tra gay”. Ciò che interessa all’ideatore Murphy però, non è tanto mostrare le atrocità perpetrate dal serial killer. Le scene di violenza sono infatti ridotte al minimo, sintomatica intenzione di volersi meglio concentrare nel cogliere la complessità psicologica di colui che racconta e restituirla visivamente. Come a Dahmer non interessava l’omicidio in sé, quanto tutto ciò che ne conseguiva, a catturare l’attenzione di Murphy è l’analitica metodologia con cui Dahmer procedeva nel mettere in atto la propria perversione. Una perversione che Murphy fa propria, in una messinscena altrettanto maniacale e minuziosa “lobotomizzando” lo spettatore in un lento e inesorabile declino del protagonista che non tarderà ad arrivare. Saranno 15 gli ergastoli che l’introverso maniaco dovrà scontare, scongiurando la tanto sperata dallo stesso Dahmer pena di morte non prevista però nello Stato del Wisconsin.

Come una persona possa arrivare fino a tanto, spingersi oltre il limite umano, involvendosi quasi in un animale che deve dar sfogo ai suoi primordiali istinti, è una domanda che non troverà mai risposta. Provare a razionalizzare il modus operandi, il certosino target delle vittime e il metodo delle brutalità sarebbe legittimo ma non c’è niente di razionale in ciò che fa. La sua è masochistica pulsione. Ma il fenomeno Dahmer nasconde più profonde e pericolose sfaccettature. La vita del sadico biondino è stata continuamente costellata da momenti di repressione sessuale, incomprensione familiare e buia solitudine che hanno permesso di scatenare la bestia.

Diffidare dalle imitazioni, squalificare le enfatizzazioni di un non-mito. Doveroso ripeterlo, nonostante questi sembrino noiosi discorsi da prete. La serie Dahmer involontariamente merita un cartellino rosso sangue poiché rilancia un personaggio che ha una fetta di fans ancora molto attiva anche a distanza di anni dalla sua morte, avvenuta nel ’94 in carcere dopo uno scontro con lo schizofrenico e pluriomicida Christopher Scarver. Dall’uscita del prodotto, infatti, sono diverse le challenge sulla piattaforma TikTok e in altri social che quasi inneggiano alla figura di Jeff che diventa così la star del momento, sulla cresta di stupide riproduzioni condivise e riproposte in salse disparate. Come al solito, niente di più sbagliato, dimostrando una totale noncuranza totale alle famiglie delle vittime che ancora piangono i figli, i nipoti e i fratelli brutalmente vandalizzati. Ma rinomatamente si sa, nel circolo dantesco dei vizi e delle perversioni, il villain del racconto fa sempre un certo effetto.





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