Legend, storia degli spietati Kray
Perche' vedere il film in cui trionfa l'interpretazione di Tom Hardy
di Mario Vittorio D'Aquino
Dominante, virile ma raffinato. Impulsivo, malvagio e instabile. E’ con questo valzer di attributi – con cui si potrebbe continuare all’infinito – tutti così apparentemente distanti, che si può descrivere la magistrale (doppia) interpretazione e l’eccezionale lavoro artistico dell’attore britannico Tom Hardy, nel film Legend (2015), in cui per l’occasione ha prestato il volto ai due gemelli Kray. Fratelli che hanno avuto la malavita nel sangue e che col sangue hanno terrorizzato l’Est di Londra negli anni ’60, a capo di una vasta organizzazione criminale.
La pellicola è un adattamento cinematografico del libro del 1972 di John Pearson The Profession of Violence: The Rise and Fall of the Kray Twins e la rielaborazione critica della trama proposta dal regista Brian Helgeland fluttua tra un gangster movie all’americana come Bronx o Quei bravi ragazzi e il noir classico, con elementi di stilizzazione comico/grottesca, e spazia nella cosmicità dello sdoppiamento dei due protagonisti: Reggie Kray, con il suo atteggiamento spavaldo, è vitalizzato da uno spirito conflittuale, a metà tra romanticismo e gelida brutalità; Ron Kray, omosessuale dichiarato e provocatorio, è uno schizofrenico continuamente acceso da scatti d’ira violenta. Con due personalità così forti e ben strutturate, il rischio di collisione è altissimo e non si farà attendere. Specialmente quando Reggie s’innamora della fanciulla Frances, interpretata dalla deliziosa Emily Browning. Il personaggio rappresenta una sorta di “spalla” tra i due Kray, facendo da controparte ad una sceneggiatura che è tutta (troppo) dalla parte di Hardy.
Non solo, infatti, è lei la voce narrante che si fa sempre più minacciata durante il film ma è spesso il pomo della discordia tra i due fratelli. Ron, il fratello più squilibrato, la identifica immediatamente come un pericolo – una sorta di femme fatale – temendo per l’integrità della relazione con il gemello, una possibilità da contrastare con ogni forza. Reggie, chiaramente, non è dello stesso avviso ma effettivamente sembra perdere il controllo sui loro loschi affari. Nascono così dinamiche paradossali – in un triangolo non considerato e mal desiderato – che sfociano in una tensione sempre più “pulp-abile”.
Ma oltre quest’intreccio fatto di invidia, sofferenza e gelosia cosa resta di Legend? Poco o nulla. Eppure nel cast c’è Paul Anderson (Albert Donoghue) in rampa di lancio dopo la prova in Peaky Blinders impersonando Arthur Shelby, o Christopher Eccleston (Leonard "Nipper" Read) che nei panni del sovrintendente chiede vendetta allo sceneggiatore. La costruzione di questi interpreti è eccessivamente lasciata – forse volutamente? – a sé stessa. Legend funziona, infatti, per la prima ora (su 131 minuti complessivi, troppi), fino a quando la natura e lo sviluppo dei suoi personaggi sono ancora incerti e ambigui, dopodiché il racconto si appiattisce sul già noto: da una parte l’indissolubile legame di sangue (quello tra i due fratelli, con Reggie che sa di doversi affrancare dall’ingestibile Ronnie, ma non potrà mai farlo), dall’altra il legame amoroso e fatale tra un uomo e una donna. Con quest’ultima continuamente in cerca di un cambiamento nell’altro che, per prima, sa non potrà mai esserci. Insomma le interpretazioni degli attori battono 3 a 0 a tavolino la trama. Un’occasione sprecata?