Birmania, il regime militare e il commercio

Ancora un pezzo di storia della Birmania, militarismo ed economia

    di Mario Paciolla

Con l’uscita del film ‘ John Rambo’ , il Myanmar è nuovamente al centro dell’attenzione mondiale. Tutti quanti si chiedono ‘dove’ sta succedendo, ‘cosa’ sta succedendo, ‘come’ sta succedendo , ‘chi’ è l’artefice di ciò che sta succedendo. Probabilmente la domanda più giusta da porsi è: perché sta succedendo? Perché la Birmania? Perché i telegiornali da settembre- ottobre, dopo averci bombardato di servizi giornalistici sulla Birmania, hanno deciso di spegnere le luci sulla faccenda? Ma soprattutto: perché Rambo? Perché il veterano del Vietnam ha deciso alla veneranda età di 62 anni, portati peraltro benissimo, se non fosse per la controfigura, di scendere nuovamente sul campo di battaglia? Perché Sylvester Stallone ha definito un film, che più che un film di guerra assomiglia ad una delle miglior produzioni splatter, un film educativo? Perché, dunque. C’è sempre stata un’attitudine oscura tra due elementi chiave della Birmania: -essendo un paese agricolo, i coltivatori rappresentano i due terzi della popolazione. Il governo, per le coltivazioni, ufficiali di riso, guadagna un profit ricco, mantenendo un mercato aperto ai flussi di capitale straniero, mentre il paese muore di fame; -nel frattempo, il credito del regime militare permette importanti trattative commerciali col mercato straniero, eliminando la politica di collettivizzazione, incoraggiando l’individualismo, favorendo un mercato import-export ad altissimi livelli. A livelli ‘globalizzati’ . Ma cosa entra in Birmania? E soprattutto, cosa esce? Entrano le armi. Le stesse che utilizzano i nemici birmani nel film di Stallone. Quindi, cosa esce? Qual è il miele che per più di due secoli ha attirato le api del lontano Occidente? Perché un impero come la Gran Bretagna ha scomodato un colosso come la Compagnia delle Indie Orientali per conquistare una regione inaccessibile, dominata dalla giungla di Kipling? Cosa c’entra la Birmania con la crisi del mercato finanziario occidentale, con la seconda guerra mondiale e, soprattutto con la guerra del Vietnam? Probabilmente la spiegazione della posizione geostrategica è plausibile. Ma non è, forse, sufficiente. La Birmania possiede regioni ricche di alcune delle risorse naturali più importanti al mondo. Le foreste tropicali sono dominate dagli alberi di teak, un legno duro, solido, resistente, pesante, facilmente lavorabile, che si trova solo in questa regione del mondo, oltre ad insignificanti quantità boschive in aree sparse per l’Indocina. Il principale utilizzo: il settore navale. Infatti l’acquisizione delle foreste birmane, divenne uno dei principali obiettivi della Compagnia delle Indie Orientali. Le colline degli stati Shan sono ricche di piombo, tungsteno e altri metalli preziosi. Inoltre il paese ha a disposizione una capacità di 50 mil di barili di petrolio e detiene i maggiori depositi di gas naturale del Sud-Est Asiatico. Circa 510 mld di cubi provati. Dopo le manifestazioni di piazza del settembre 2007, dal 15 ottobre i ministri degli Esteri dell’ UE, hanno deciso di colpire, assieme agli americani, gli interessi economici della giunta militare al potere: congelamento dei loro beni all’estero, inasprimento dell’embargo sulle esportazioni di legname, metalli e pietre preziose. Tali misure però non riguardano i settori dell’estrazione di gas e petrolio. Strategici per l’Occidente. Insieme al nocciolo duro delle potenze occidentali, si sono uniti il Giappone e l’Australia. C’è solo un paese (sarebbe meglio definirlo un sub-continente) che si è opposto a tali provvedimenti: la Cina. L’unico paese in grado di poter stravolgere l’equilibrio geopolitica mondiale, con l’elefante indiano. Le loro esigenze economiche cozzano con i progetti di democrazia paventati dal liberalismo democratico che soffia da Ovest. La Cina ha subito dichiarato ‘non ingerenza nelle questioni interne di altri paesi ’ , cercando di mantenere vivi i propri interessi economici e geopolitici, senza macchiare la sua immagine. Corre l’anno 2008. L’anno delle Olimpiadi di Pechino. E infatti proprio in questi giorni è tornata d’attualità l’annosa questione tibetana, altra regione oppressa dal comunismo cinese, rosso come il sangue versato in secoli di soprusi militari. Già si parla di centinaia di morti. Senza dimenticare il genocidio culturale in atto.

 





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