Quando fuggi da casa tua
Abdullahi Ahmed, migrante somalo, racconta il suo viaggio nel Mediterraneo
di Roberto Rosano
Abdullahi Ahmed ha ventinove anni. È abbastanza piccolo, scuro, ha lo sguardo di un ariete arrabbiato, con occhi grandi e lucidi come macchie d’inchiostro. Ci troviamo in un piccolo locale torinese, stracolmo di studenti. Mi offre un ginseng e iniziamo la chiacchierata, mentre la radio del bar, stranamente, diffonde l’Ave Maria di Schubert. Il volume è così possente che il registratore l’ha iscritta in sottofondo alla prima parte dell’intervista, dando al racconto una curiosa nota lirica. E, in modo bizzarro, sembrava che vi fosse capitata di proposito quella canzone, che parla di rupi, di demoni, di dure rocce e dell’umido tanfo dei crepacci...
Abdullahi parlava della sua infanzia in Somalia, della guerra civile, del dolore della madre che lo ha visto partire a soli diciannove anni per un viaggio lunghissimo e temerario attraverso il deserto, i fili spinati delle frontiere, in mano ai trafficanti di esseri umani, sino alla Libia, e poi stipato insieme ad altre trentanove persone su una misera barca di legno, di notte, attraverso il Mediterraneo. Disgraziatamente, durante l’intervista uso l’espressione Somalia italiana. Se ne risente, la voce si fa superba, a tratti addirittura arrogante nel farmi pesare il riferimento all’imperialismo italiano, con piccole staffilate d’ironia. Comincio ad averne antipatia. Poi la sua storia di dolore e di coraggio mi inghiotte come in un vortice, sempre più in basso, insieme a lui, e ne divento partecipe, corresponsabile, complice. Inizio a sentire il suo freddo, la sua paura, l’umiliazione, la speranza, l’attaccamento alla vita...
Abdullahi, il fatto che lei venga da un’ex colonia italiana ha avuto influenza nel processo di ottenimento della cittadinanza?
«No, non c’entra niente, i requisiti dei rifugiati, che non possono evidentemente tornare nel loro Paese d’origine, sono cinque anni di residenza, l’aver lavorato gli ultimi tre anni e non aver commesso reati qui in Italia».
Che ricordi ha del suo Paese?
«Ricordo un Paese devastato dalla guerra civile. Nel 1991 Mohammed Siad Barre, che aveva governato il Paese per trent’anni fu rovesciato. Da quel momento il Paese è stato governato da una pluralità di entità statali più o meno autonome, le goballada, facenti capo alle tribù».
Ho letto che un tempo, per tradizione, gli “anziani”, cioè i capi tribù, esercitavano il ruolo di mediatori di guerra e da loro dipendeva “de facto” la soluzione dei conflitti...
«Certo, ancora oggi decidono i capi tribù. Persino il nostro sistema elettorale è strutturato in ordine all’esistenza dei clan e dei loro capi. Ma di questo parlerò in seguito, se vorrà. Intanto andiamo per ordine. Al rovesciamento di Barre, seguì il “periodo delle vacche magre”, carestia, fame, disordine. La Somalia era in ginocchio».
Fu considerato uno “Stato fallito”. David Blair sul The Daily Telegraph, il 18 novembre 2008, l’anno in cui lei partì per l’Italia, ne analizzò il fallimento e parlò di un Paese letteralmente collassato nell’anarchia. Nel 2009 Forbes lo inserisce nella lista dei Paesi più poveri e violenti al mondo.
«Certo. In quel clima di instabilità si inserisce anche l’omicidio di Ilaria Alpi, giornalista e fotoreporter del tg3, nel 1994, per ragioni che tutti noi conosciamo o dovremmo conoscere».
È il 20 marzo, siamo nella sua città, Mogadiscio, quando quella brillante giornalista, che conosceva l’arabo, il francese, l’inglese, e che per questo è stata inviata dal Tg3 a seguire la missione Restore Hope, viene brutalmente uccisa mentre conduceva un’inchiesta sul traffico d’armi e i rifiuti tossici illegali, tra i quali l’uranio. Io e Lei, Abdullahi, abbiamo qualcosa in comune, lo sa? Veniamo da terre trasformate in discariche di scorie tossiche.
«Quando Ilaria Alpi è stata uccisa, io avevo appena sei anni. Non ne so nulla, però è evidente che avesse infastidito chi aveva interesse nel business delle armi e dei rifiuti tossici. Quando c’è stato lo tsunami, l’onda assassina che nel mio Paese ha ucciso 300 persone, senza contare i dispersi e le 30000 persone che hanno perso tutto, molte persone si sono ammalate a causa dell’emersione di questi rifiuti, che si contava di aver occultato per sempre nel mare».
Mi parlava del sistema elettorale del suo Paese... Ci ritorniamo?
«Sì, nel 2003 fu istituita la legge elettorale basata su un sistema di voto indiretto, secondo la formula del 4.5, ad indicare i quattro clan principali più una varietà di cinque clan minori, che selezionano i 275 futuri membri della Camera del Popolo, la Camera bassa, e i 54 della Camera Alta».
Quindi in Somalia, di fatto, i cittadini non eleggono direttamente i loro rappresentanti?
«No, assolutamente. Votano solo 14.024 “grandi elettori” scelti da 135 leader tradizionali dei principali clan del Paese. I quattro più importanti avranno gli incarichi di maggior peso».
E a quel “cinque” che segue alla virgola?
«Forse spetterà il Ministero dello Sport e qualche altro incarico senza portafogli».
Lei era membro di una tribù di minoranza?
«No, io sono membro di uno dei clan più importanti. La potente tribù detta Hawiye. Qualcuno ha deciso di istituire una Corte Islamica per riunire il Paese e realizzare la pace dopo anni di conflitto. In sei mesi la Corte ha governato pacificamente il nostro Paese. Anche la zona meridionale, che Lei chiamava “Somalia Italiana”».
Abdullahi, non si risenta, per favore! Quella definizione è presente nella cartografia politica italiana, negli atlanti che studiano gli studenti italiani. Io vengo dal sud Italia, che è stato governato per seicento anni dagli spagnoli, per citare solo una delle dominazioni straniere. L’imperialismo è nella storia del mondo...
«Fratello, io non sono ipocrita, non mi piace l’ipocrisia. Cosa ha fatto il suo Paese per la Somalia? Cosa? Nel 2011, quando c’è stata la carestia nella “Somalia Italiana”, la gente moriva di fame e di sete, l’unico Paese che ci abbia aiutato è la Turchia del tanto vituperato Erdogan. Si è recato in Somalia e non ha voluto fare accordi con i clan e con i governi corrotti, ma ha fatto costruire l’aeroporto somalo. L’unica compagnia con la quale io possa raggiungere il mio Paese da Milano è la Turkish Airlines. L’ospedale più grande di Mogadiscio è stato costruito dalla Turchia. 30000 studenti somali sono in Turchia e studiano gratis. La Turchia è stato l’unico Paese che ha aiutato il mio in un modo che si possa verificare. Eppure i turchi mica sono stati in Somalia».
Possibile che l’Italia per il suo Paese non abbia mai fatto nulla? Niente di niente? Non ha partecipato alla missione UNITAF sancita dall’Onu per la stabilizzazione del suo Paese?
«Certo, io mi attengo ai fatti, non dimentico il bene, né tanto meno il male. Guardi il documentario Checkpoint Pasta, che parla del fallimento delle missioni umanitarie in Somalia».
A questo punto spengo il registratore. L’intervista ha assunto i toni di una discussione animosa, quasi nazionalistica, che non era nelle mie intenzioni. Gli spiego che io non ero venuto con cattive intenzioni, né per difendere il mio Paese e le sue politiche coloniali o umanitarie. Gli ho spiegato che ero venuto ad ascoltare la storia di un essere umano che ha vissuto ciò di cui io ho sentito solo la tragica eco, al telegiornale, in qualche libro. Ho precisato che avevo per lui lo stesso interesse che da bambino nutrivo per i racconti di mio nonno, che aveva vissuto la Seconda Guerra Mondiale e che i tedeschi avevano deportato in Germania in un campo di lavoro quale Italienisch Verräter, cioè a dire traditore italiano.
(Prima puntata)
(foto di Sergey Ponomarev)