Centocinquant'anni di mafia

Dalla prima comparsa della parola ai film cult hollywoodiani

    di Lidia Girardi

L’immagine che noi italiani abbiamo all’estero è fortemente legata agli stereotipi che negli altri paesi del mondo hanno di noi: siamo un popolo di scansafatiche, inguaribili latin lover, implacabili gesticolatori che parlano ad alta voce, ideatori della pizza e di altre infinite prelibatezze culinarie e, in ultimo, siamo la patria della mafia. Tristemente noti per un fenomeno che ha cambiato la storia e il volto del nostro paese, la mafia ha ormai una sua collocazione in tutte le nazioni.

Esportata come infelice prodotto nostrano al pari dei frutti agricoli della nostra terra, questo complesso di associazioni criminose si è fatto largo nelle varie società moderne e nelle loro economie. La “mafia americana”, ad esempio, che è stata ispiratrice di numerosi film come “Quei bravi ragazzi” o “Il padrino” (solo per citarne alcuni), ha preso piede dagli ambienti italo-americani che si andavano lentamente ad affermare, quasi sempre con l’uso della violenza privata, nel nuovo continente. Ma quello americano è solo uno dei molteplici casi che potrebbero essere citati. La mafia, infatti, si accompagna e logora qualsiasi sistema societario all’interno del quale si va collocare: quella cinese, quella spagnola, quella tedesca e ancora quella russa. Le infiltrazioni mafiose sono addirittura riuscite a penetrare nel profondo e incorruttibile Nord Europa.

Ma da cosa deriva questa parola italiana che è diventata così famosa da meritare una menzione in tutti i vocabolari del mondo?

Era il 25 Aprile 1865, la neonata Italia stava compiendo i suoi primi passi e in un documento redatto dal Prefetto di Palermo, marchese Gualterio, compariva per la prima volta su un documento ufficiale quella parola che saremmo stati destinati a sentire fin troppe volte: Mafia (scritta in maiuscolo).

Seppur questa circostanza non sia stata la prima in cui questa parola venne pronunciata, è sicuramente il momento in cui la mafia viene definita con il significato con cui la riconosciamo ancora oggi e cioè come “malavita organizzata”.

Già un paio d’anni prima rispetto alla data suddetta, in una commedia dialettale portata tra le strade di Palermo si raccontava de “I mafiusi della Vicaria”, laddove, però, anche il termine “mafiusedda” riferito alla casa di una persona nota e rispettata nell’ambiente palermitano, non aveva alcuna accezione negativa, questa sarà destinata ad acquisirla soltanto due anni dopo per mezzo della relazione del prefetto Gualtiero.

Difficile stabilire con certezza l’etimologia della parola “mafia”. Sicuramente si può dire che all’inizio veniva scritta con due effe e una delle due scomparirà soltanto a partire dal 1900. Il vocabolo originario potrebbe derivare, secondo alcuni studiosi, dall’arabo “mahyas” che vuol dire “spavalderia” o, secondo altri, da una parola del dialetto toscano. Tenendo conto di altre fonti la parola in questione affonderebbe le sue radici nel 1282 dall’urlo disperato di una madre che per salvare la figlia dalla violenza per mano di un soldato francese, aveva urlato per le strade di Palermo, per cercare aiuto da altri siciliani, “Ma fìa! Ma fìa!” ( Mia figlia! Mia figlia!).

Inutile sottolineare che, qualunque sia la genesi di questa parola, è evocatrice in ognuno di noi di terribili e bui momenti della nostra storia. Il solo pronunciarla riporta davanti ai nostri occhi tutti i volti delle persone che hanno perso la vita per combatterla, di coloro che ne sono state vittime innocenti e di chi, adoperandosi perché sia fatta giustizia, aspettano una morte preannunciata per mano dei mafiosi. E stare qui, oggi, dopo ben 150 anni a parlarne come di un’infausta celebrazione è senz’altro una ferita aperta sulla pelle di ogni italiano.





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