Sanzone, rabbia e poesia

Il frontman degli 'A67: dal debutto con “A camorra song’io” al nuovo singolo con Caparezza

    di Livia Iannotta

È da un posto in prima fila sulla disperazione che puoi percepire l’esatto peso del caso. Quanto sia un infame giro di fortuna, spesso, a farti uomo oppure diavolo, professore o camorrista. Come nascere nel posto giusto o in quello sbagliato. Avere tutto o arrangiare la vita con nulla. Incontrare Daniele Sanzone mi ha imposto di arenarmi in queste riflessioni. Quando gli stringo la mano, a Napoli, sotto l'indice di Dante, ostenta una maglietta eloquente: “Scampia felix”, c'è scritto. Si gridano cose anche da una t-shirt. Lui lo fa da molto più tempo con la musica. Dal 2005, per la precisione, quando con la band di cui è frontman, gli ‘A67, nel pieno della faida di Scampia, debuttò con A camorra song’io e Voglie parlà. Versi corrosivi sillabati su un rock ruvido, rabbioso, che incolpa.

Figlio di un pittore, a lui che ha avuto la fortuna di vivere un’infanzia tra le tele e conoscere l’arte in mezzo ai fantasmi di Scampia, che ha preso una laurea in filosofia, scritto un libro sul legame tra neomelodici e camorra (Camorra sound), vincitore del Premio Paolo Borsellino, e che a sei anni dall’album Naples Power è tornato duettando con Caparezza nel singolo Il male minore, viene spontaneo chiedere: sei ancora arrabbiato? «Lo sono ancora – confida –. Pasolini diceva che essere odiati fa odiare. A camorra song’io era un urlo. Oggi se possibile quella rabbia è ancora più forte, ma l’età mi impone di non urlare più».

Infatti la vostra musica nel tempo si è ammorbidita…

«Con gli ‘A67 abbiamo sempre spaziato tra diversi generi. Quando abbiamo iniziato sentivamo sulle spalle il peso di gruppi come 99 Posse e Almamegretta che erano già storia a Napoli. Perciò abbiamo puntato sul rock duro che ci accomunava tutti. Ultimamente abbiamo abbracciato sonorità più pop per arrivare a una platea più ampia. Sempre in quest’ottica va interpretata la scelta dell’italiano, che per me è sempre stata una sfida».

In che senso una sfida?

«Mi accorgevo che i pezzi che scrivevo in italiano erano sempre traduzioni dal napoletano. Fino a che non ho realizzato che avevo davanti due lingue completamente diverse, e come tali vanno trattate».

Quando hai capito che la musica era il tuo modo per “urlare” un messaggio?

«È stata una risposta naturale a una situazione difficile. Come a dire: gli ‘A67 non potevano non nascere. Sentivo la rabbia, l’urgenza di raccontare e raccontarmi a tempo sul beat nel modo che consideravo più mio».

Tra l’altro avete debuttato nel clou della prima faida di Scampia. Come hai vissuto quel periodo?

«È stato un momento molto delicato. Si avvertiva la tensione nell’aria e capitava di essere fermati dai posti di blocco della polizia anche tre volte al giorno. Noi abbiamo sublimato tutto con la musica».

Della tua provenienza ne fai un vanto. Lo sbandieri, senza paura o vergogna…

«Sì (ride e mi mostra la maglietta.“Scampia Felix” è il documentario sul Carnevale di Scampia organizzato dal 1983 dal Gruppo Gridas di Felice Pignataro). Scampia è molto migliorata, non è più quella di Gomorra. Ma le ombre della camorra non aspettano altro che tornare e riprendersi i loro spazi. Per questo dobbiamo continuare a mantenere alta la guardia».

A proposito di mantenere alta la guardia... È vero che a gennaio hai trovato un proiettile sul balcone di casa? 

«Sì, a Capodanno. Ma se avessero voluto ammazzarmi lo avrebbero fatto tempo fa. Non voglio far passare Scampia per un paradiso: il quartiere conta quasi 100 mila abitanti, le piazze di spaccio ci sono ancora (seppur con modalità diverse rispetto al passato), così come ancora si registra ancora il più alto tasso di evasione scolastica d’Europa. Ma l’altra faccia della medaglia è un quartiere pieno di associazioni, che a Carnevale si riempie di colore…»

E dove si concentra la più alta percentuale del verde di Napoli…

«Esatto. Quello che voglio dire è che Gomorra se n’è andata da Scampia, ma resta comunque un quartiere difficile».

In Naples Power, e non solo, avete collaborato con tartisti come Edoardo Bennato, James Senese, Teresa De Sio, Tullio De Piscopo…

«Le nostre sono state sempre collaborazioni mirate. Scegliamo artisti ai quali ci lega una comunione d’intenti e affinità musicali. Siamo stati anche ospiti di Pino Daniele in vari concerti e io ogni volta mi commuovevo ascoltandolo. Pino è una fonte inesauribile di ispirazione, per linguaggio e melodie con cui è riuscito a dipingere il sentimento di un intero popolo. Ho scritto anche un libro su di lui, Terra mia, insieme a Claudio Poggi».

A cosa stai lavorando ora?

«A inizio anno prossimo dovrebbe uscire il nuovo album degli ‘A67, anticipato dal singolo featuring Caparezza. Poi sto lavorando a dei progetti editoriali: voglio pubblicare un libro in cui raccogliere dieci storie tratte dal vero, che restituiscano al lettore l’idea della complessità del mio quartiere. Storie comuni che attraverso la quotidianità raccontino Scampia. Un anticipo è stato il mio racconto Shwarzenegger a Scampia incluso nel libro Scampia Trip. E ho anche in mente un mio romanzo, per ora ho il plot ma aspetto che lieviti». 

Secondo te la musica napoletana è in buona salute?

«Viviamo una profonda crisi discografica. Oggi si fa tutto da sé e questo da un lato è un bene perché garantisce la massima libertà di espressione, dall’altro un male perché non sempre viene tutelata la qualità. In giro c’è tanto talento giovane non supportato. E senza figure professionali come i produttori artistici che indirizzino, aiutino a far maturare delle capacità ancora acerbe, ancora troppo figlie di Napoli, non si riesce ad andare oltre. Liberato, ad esempio, non è rivoluzionario, ma ha un’immagine potente, si vede che dietro c'è un progetto».

Non è che sei tu Liberato?

(Ride). «No, non sono io, ma in molti lo pensavano».

Mi viene da farti una domanda un po’ strana, visto il rapporto simbiotico che hai con le tue radici. Se Daniele Sanzone non fosse cresciuto a Scampia, chi sarebbe oggi?

(Si ferma, guarda altrove. Ci pensa su). «È una domanda a cui non so rispondere. Crescere a Scampia ti condiziona l’intera esistenza. La nostra casa, poi, è sempre stata un porto aperto. Ci sono stati Roberto Saviano, Pino Aprile, Edoardo Bennato. Non riesco neppure ad immaginarmi altrove».





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